Memorie di un nummomane, capitolo 2

Prosegue il racconto in prima persona di un appassionato di monete, scritto da un appassionato di monete.

Dopo il primo capitolo, continua la pubblicazione con cadenza settimanale del libro di Demian Planitzer Memorie di un nummomane. Ovvero: tramonto di un collezionista di monete antiche (pp. 128, Albo Versorio edizioni, Milano 2017, € 9,50).

Capitolo secondo. Il sole di Malta

Di come l’amore per le monete sia maggiore dell’amore per le donne.
“… dov’è facile far uscire
l’anima dai vostri vestiti che si
sbottonano volentieri al lume delle
alte finestre che come lingue di
vetro leccano il soffitto”.

Erano giusto quindici anni, quindici anni fa.
Avevo una fidanzata che sognava una vita assieme a me.
Vi sembra logico andare in ferie per un mese con 500 euro e
rimanere al verde già dal terzo giorno per comperare questa moneta
che guardo adesso?
Si camminava per una delle vie di Valletta, la capitale della
Repubblica di Malta (là si dice proprio “Valletta” e non “La
Valletta” come ci insegnano a scuola), quell’arcipelago in mezzo
al Mediterraneo, proprio sotto la Sicilia, a metà strada tra Italia
ed Africa. Vi sono un sacco di saliscendi e tantissime chiese che
invitano a pregare anche i più restii. Dico sul serio perché si trovano
proprio sugli incroci e non puoi non sbattere contro le porte aperte
che lanciano occhiate nere e cupe, ma che incuriosiscono. Dentro,
lampadari pesanti d’argento leggerissimo perché filigranato, ex voto,
stoffe vellutate ed antri oscuri dov’è facile far uscire l’anima dai
vostri vestiti che si sbottonano volentieri al lume delle alte finestre
che come lingue di vetro leccano il soffitto. La pianta è quasi sempre
a croce greca e tutte queste chiese assomigliano ad asili del tempo, a
dei moli che si allungano nell’oscurità del passato, dove la religiosità
trasuda umidità dai pavimenti e dalle volte che a guardarle fanno
perdere l’equilibrio.
Si arriva ad un negozietto che vende anche libri antichi, un trattato
di De La Luzerne in francese, del 1800, occhieggia dall’espositore
ottogonale in vetro che sensibilissimo gira solo sfiorandolo, come
da noi quelli delle cartoline. Si entra ed il negoziante, una barbetta
rossiccia sotto due occhi grigi sporgenti, si vede subito che preferisce
clienti non italiani. Sul banco, sotto un vetro opaco, ci sono varie
monete, ognuna si è guadagnata un quadratino di legno che ora è
tutto il suo mondo, anche se spingesse con i gomiti, se adulasse il
padrone… se valesse cento volte quella vicina, tutto inutile, uno
slargo democratico, uguale per tutte.
Sono corone inglesi, talleri di Maria Teresa d’Austria, monete
italiane di Vittorio Emanuele III, 5 franchi francesi, tutta roba che
può benissimo tenersela… in un angolo si vede un asse romano, è
sbiadito, quasi evanescente, ma c’è.
Allora chiedo, in un inglese sgrammaticato, gestuale e ridicolo, se
abbia qualcosa di più prezioso, e con le dita sfrego pollice ed indice tra
loro come se quello fosse un linguaggio internazionale. Mi fissa dritto
in faccia, sento la puzza del suo alito da tabacco. Si gira verso la porta
e osserva la mia fidanzata che sorride con i denti sani e bianchissimi
traducendo quello che volevo dire in un inglese cristallino e naturale.
Lui improvvisamente emette dei suoni “Yes, Cospicua” e fa dei gesti,
pare voler indicare lo sgabuzzino a destra, o forse da quella parte. Si
capisce poi che l’appuntamento è alle tre del pomeriggio, al negozio.
Ma bisogna andare a casa sua, perché le monete sono là.
C’è da fidarsi? Dove ha intenzione di portarci quell’hippy? E’ una
trappola in cui stiamo cadendo molto volonterosi? Per fortuna la mia
ragazza non ha capito che sono disposto a giocarmi tutto e a buttare
sul piatto i soldi della vacanza…
Compero due grappoloni di uva nera, fresca che si spaccano
croccando sotto i denti bianchi e forti della mia ragazza che ingoia il
mosto dolce con la gola voluttuosa. La strada verso casa è piena di
speranze colorate, di monete greche e romane, di esemplari rarissimi
a prezzi stracciati, di marenghi d’oro dalle annate introvabili in Italia,
di nummi rinascimentali sconosciuti ai libri d’aste. E in mezzo il
negoziante, quel Robert Raid, un hippy spiantato che per pochi euro
si farà sfilare un tesoro: cretino!
Già penso alla sera, sul letto con le mie nuove monete che mi
aspettano da anni, bastava facessi solo 1600 chilometri per allungare
la mano.
Per un contrattempo, arriviamo dal Raid alle 15.10 e vediamo
l’Inglese chiudere la porta del negozio e allontanarsi insaccato nelle
spalle magrissime e spioventi, fumo si leva dalla sua bocca e le volute
grigie ci raggiungono odorose.
“Ehi là, disgraziato?”, urlai con la sicurezza che non conoscesse
i termini italiani e come se mi avesse rubato le monete che avrei
comprato qualche ora dopo.
“E’ proprio un furfante, forse un ladro”, confidavo intanto ai
capelli nerissimi e profumati della mia fidanzata che mi seguiva
guardandomi innervosirmi.
La barbetta rossa si gira verso di noi facendo un’ inversione a U,
il Raid si ferma e capiamo che dice “Uh Italiani!”, battendo l’indice
affusolato come una sigaretta con l’unghia ingiallita, che sembrava il
filtro, sul quadrante piatto di un vecchio orologio che sbadigliava sul
filiforme polso destro.
“Ma chi siete voi Inglesi che andavate in giro vestiti di pelli quando
noi andavamo in toga alle terme di Caracalla? Cosa volete che avete
la lingua più stupida del mondo che non si legge come si scrive?”.
Questo gli avrei urlato nelle orecchie sporche a quel ladro con il
papillon a scacchi neri e bianchi come un personaggio delle comiche.
Ma dovevo pensare solo alle mie monete e dovevo ricordarmelo e
così sopportai quegli occhi che galleggiavano come due pesci-sole
morti nell’acquario gorgogliante del mio studio.
“Stupido Inglese, avete una lingua che è mezza tedesca sennò
avreste metà vocabolario”, compiaciuto commentai tra i denti mentre
la mia fidanzata mi redarguiva con gli occhi neri, ancor più focosi.
Sale su una vecchia macchina, modello Mini, che sono 20 anni
che qua in Italia non si vede più, con le ruote minuscole e la guida a
destra e dove pare di stare seduti sul pavimento. È buffa, verde scuro,
verde Londra, ma il sale dell’aria l’ha tutta insalivata come se le fosse
passata sopra un’enorme lumaca. Ci stiamo dietro anche se siamo
stretti. Il Raid emette uno strano verso “one, davanti with me?”.
“Cosa vuoi? La mia fidanzata davanti, sporcaccione?”, esclamo
ridendo radioso perché l’Inglese non capisce mentre la mia fidanzata
invece mi tira il braccio.
La scatola ruotata parte ed il Raid svicola nel traffico come
un gatto, con una scaltrezza allarmante. Ma forse è quell’andare
contromano che mi impressiona per non parlare del sorpasso a
destra. Solo gli autisti sembrano seduti dalla parte giusta in queste
strade rovesce. Le ruote stridono sull’asfalto salato dal mare che
luccica in lontananza tra le navi da crociera che avanzano con
lentissima eleganza nascondendo palazzi di venti piani e gli alberi
sui promontori. Il fuoco africano scoppia nel cielo mentre il mio
cervello si illumina di monete d’oro rarissime in conservazione
eccezionale. Facciamo un giro lungo ed arriviamo dall’altra
parte della baia. Calcara, Vittoriosa ed ecco Cospicua, sono le tre
insenature del grande Harbour, calde, luminose con un mare blu che
si staglia sulle rocce ocra dissetando gli occhi. Noi prendiamo una
vietta in mezzo a villette liberty in tufo caldo giallo che pare appena
uscito dalle cave.
L’abitazione del Raid ha un arco che porta ad un giardinetto
interno, piacevole, che ricorda le ville romane o i chiostri dei nostri
conventi, solo che ci sono strane piante dalle foglie carnose che
vivono pensando e non si sente il mistero delle preghiere o i profumi
delle libagioni sui triclini.
Il corpo del Raid sale agile la scala in pietra come se si trattasse
del fusto di una palma e ci accoglie sorridendo con i denti gialli
nella sua stanza dove un letto bianco è incastrato nell’angolo del
muro, di fronte ad un’enorme finestra senza tenda. Tutt’attorno
scaffali caricati di vecchi libri polverosi che respirano di tarli e
muffa soffocante. Il Raid si accende una sigaretta appena rullata e
con fare sospettoso si accuccia come un cane vicino al letto. Estrae
da sotto tre scatole marroni, larghe e basse che paiono quelle che di
solito contengono i servizi di posate.
Le alza a fatica e le mette sul tavolo lungo che sta sotto alla
finestra. Sembra non curarsi di me e della mia compagna con la
quale in macchina, invece, tentava, con uno scarno inglese, di
avviare una conversazione di circostanza. Prende la prima scatola
e la solleva, la sposta dalle altre e la pulisce con un fazzoletto duro
a scacchi bianchi e rossi che sembra più un tovagliolo dimenticato
in tasca. Si alza un po’ di polvere mentre dal vetro sottile si odono
delle voci che rimbalzano sopra il giardinetto, dove si affacciano
innumerevoli finestre. Un violino manda le sue limpide note fino
a noi, impossibile capire se sia un ragazzo o una donna oppure un
vecchio quello che suona, la melodia si mescola però all’aria calda
e luminosa, piacevole come d’inverno il profumo del croccante
caldo che gira mieloso nei pentoloni delle fiere di Verona.
Il Raid apre la scatola che pare rivestita di carta marmorizzata,
come i libri del Settecento, e vedo infilati negli elastici bianchi, che di
solito stringono forchette e coltelli, una miriade di monete romane:
aurei, sesterzi, denari, assi in un tripudio di colori splendenti e di
effigi incomparabili che mi rubano il fiato mentre la mente implode.
Avete presente quando da ragazzini leggevate le favole sui pirati?
E ad un certo punto si arrivava alla scena in cui si apriva il forziere
pieno di tesori? Ecco! Stessa sensazione insostenibile, come quando
si guarda fisso il sole.
Questo pezzente di un Inglese, che marcisce in quel letto
respirando aria lebbrosa, possiede un tesoro che chissà dove avrà
rubato. Il Raid è attento, non si fida, è sospettoso di noi e ogni tanto
guarda giù, fuori dalla finestra, pare debba ingoiare dei cubetti di
ghiaccio senza averli prima sciolti in bocca. Accende un fornelletto
a gas sotto il lavandino a lato del letto e si mette a spadellare un
uovo con le stesse mani con cui prima aveva accarezzato gli aurei
romani. Meriterebbe uno schiaffo. Ora l’albume gli cola denso tra le
dita mentre apre la finestra e butta di sotto il guscio rotto: educato.
“Sei davvero uno sporcaccione!”, recito a denti stretti mirando le
monete ancora allacciate negli elastici. La mia fidanzata mi guarda
e si gira verso la porta, mentre quell’infingardo infesta l’aria con il
suo uovo.
Siccome ero accucciato a mirare le monete, mi alzo e sbatto
la testa contro il basso lampadario che comincia ad ondeggiare
spostando la luce della lampada come con un badile trasparente.
“Posso?”, chiedo al barbetta che ora divora l’uovo frantumato
con la forchetta dopo avervi sbattuto contro un po’ di sale da un
vasetto pieno chicchi di riso marrone. Ma non poteva aspettare che
ce ne fossimo andati per ingozzarsi come un’anatra?
L’uovo gli impiastra la barba, lui si scusa e tenta di prendermi un
nummo.
Lo arresto incredulo. Con quelle mani lerce lordare l’effige
di Ottaviano Augusto che rimbalza su un aureo meraviglioso con
contromarca sulla guancia, un’incisione a V orizzontale che pare
uno sfregio oppure una grossa e profonda cicatrice sullo zigomo
dell’Imperatore? Neanche per sogno.
“Mangia pure, animale”, dico usando il tu come volessi farmi
comprendere meglio, tanto il “lei” in inglese non c’è e con quello
non è proprio il caso di usarlo.
“Lo prendo in mano?”, chiedo facendo vedere la mia mano dico
anche “hand” e “ideik” traducendo in maltese, una della poche
parole che so in quella lingua araba affascinante che sa di sabbia e
di deserti.
Lui annuisce mentre stappa una lattina di birra che succhia come
un topo perché mezzo strapp si è rotto e così non si è tolta tutta la
linguetta di alluminio.
“Anche la birra ti bevi, vecchio ladrone!”, esclamo ridendo
beffardo.
Mi urta i nervi quell’essere che possiede tutto quel ben di Dio. Ho
tra le dita l’aureo di Augusto ed è questo quello che conta.
Sapete? Sono 7 grammi e mezzo d’oro, ha quasi duemila anni
e mi guarda innamorato. Forse mi chiede di portarlo via da quel
postaccio…
Mi scalda il palmo il passato luminoso. Mi parla quell’incredibile
Imperatore. Mi commuove i sensi la sua disponibilità.
“Quanto vuoi?”, chiedo con malcelato disprezzo.
Ma i miei occhi mi hanno già tradito lo so, e lo sa anche il Raid.
Per fortuna la mia fidanzata non mi guarda, sennò vedrebbe la
mia luce nello sguardo che è superiore a quella con cui guardo lei,
in quel momento.
Il Raid si raggomitola in quella sua giacca consunta e pensa
bene di accendersi un’altra sigaretta rullata male e mezza bagnata
di saliva. Si accomoda il papillon e guarda me ma non la moneta,
che non sappia che è un aureo di Augusto forse? Con il capricorno,
il segno dell’Imperatore, sul rovescio? Forse non sa nemmeno chi
è Ottaviano Augusto. La mia fidanzata ora pare interessarsi alle
monete come quando guarda i merletti, ma probabilmente più per
capire il prezzo che per altro.
“Ma allora lo compero in Italia”, dico allontanando la moneta
e infilandola nel cerchietto elastico. “E ti do questa cifra in questo
buco di camera dopo tutto il giro che mi hai fatto fare, cane malato?”,
penso tra me desiderando, forse, di uccidere quell’animale per
portarmi via tutto.
Mi butto sui sesterzi. Ce n’è uno di Traiano con un ritratto di stile
magistrale, con una superba patina verde intenso, il busto è laureato
e drappeggiato a destra con la Felicitas incredibilmente modellata e
le lettere S. e C. ai lati.
Il Raid ride e mi da fastidio.
Guarda i miei occhi e mi irrita. Vuole un sacco di soldi e gli dico
che è meglio che chiuda la scatola. Allora apre la seconda dove
appaiono le monete medioevali italiane, c’è addirittura l’Augustale
di Federico II di Svevia in mezzo, un pezzo michelangiolesco che
mi sforzo di evitare. Faccio aprire la terza. Casa Savoia e Regno
d’Italia. Mi butto sulle Cento lire di Carlo Alberto. E’ vero, ci sono
anche le 80 lire di Carlo Felice, ma i 32,25 grammi d’oro del re
Tentenna mi intrigano di più.
“Hai soldi da prestarmi?”, butto là con gli occhi roteanti alla mia
fidanzata che mi pare infastidita.
Appendo alle mie dita le 100 lire, 34 mm di diametro, un portento
d’oro che riempie e sfonda il palmo della mia mano mentre la mia
mente è già in paradiso.
Il Raid fuma ancora quello schifo marrone.
Mi riprendo i pensieri e cerco di fargli capire che voglio sì
spendere ma che deve fare un prezzo buono.
L’Inglese comprende. Chiude la scatola e mi dice “ok”. Io non
capisco invece, ma sento dei rumori sulla scala. Raid butta la
scatola sotto il letto tentando di simulare una calma che non ha.
Lo guardo con la moneta in mano che non è ancora mia, ma quello
mi fa credere di sì. Sto così con la stessa sensazione di quando si
è piccini e si è preso un giocatolo dallo scaffale ma il papà non
ha ancora detto “sì te lo compero” e si allontana invece incurante,
ferendo l’anima.
Ad un certo punto sospetto che tutto quello che c’è lì dentro sia
stato rubato da qualche parte, e mi spavento ma sento pure che ciò
potrebbe essermi d’aiuto per spuntare un prezzo ragionevole o forse
stracciato.
Il tipo si gratta i capelli biondo-rossicci arruffati e radi sulla fronte
mentre lancia il mozzicone dalla finestra. Qualcuno ha accesso
uno stereo da qualche parte e i Dire Straits festeggiano l’acquisto
suonando “money for nothing”.
Quattrocento euro se ne vanno nelle mani dell’Inglese.
Charmane, la mia lussuosa fidanzata greca, mi guarda contrariata
trafiggendomi con quei suoi stupendi occhi neri, ateniesi, pensa già
alle rinunce delle prossime settimane, lo so. Io stringo la moneta
come se fosse una calda reliquia. Furtivamente scendiamo le scale
mentre io benedico i rumori che hanno spaventato il Raid, il quale
intanto ci riporta in centro a Valletta con la Mini indiavolata.
Devo dire che mi secca proprio il silenzio della mia metà, ma
intanto stringo il mio cuore con le mani mentre discorro già da un
po’ con il Savoia del 1842, 864 esemplari coniati a Torino, della
disfatta di Novara e di tanto altro ancora.
Ora le Cento lire sono mie!
E così ora sapete.