Memorie di un nummomane

In diciassette brevi capitoli il racconto in prima persona di un appassionato di monete, scritto da un appassionato di monete.

Inizia qui la pubblicazione di un capitolo alla settimana del libro di Demian Planitzer Memorie di un nummomane. Ovvero: tramonto di un collezionista di monete antiche (pp. 128, Albo Versorio edizioni, Milano 2017, € 9,50).

L’opera – finalista al Premio Letterario Nazionale Bukowski –  descrive le vicende di un collezionista di monete  rare che, nel momento in cui sta per impossessarsi dell’esemplare più desiderato, prende coscienza di essere lui stesso posseduto dalla sua collezione, non viceversa. Cerca allora (e trova?) la liberazione da questa schiavitù in un gesto estremo, delittuoso per qualsiasi nummomane.
Il libro di Planitzer non è quindi un manuale per collezionisti quindi, né uno studio storico, ma un racconto che si dipana, con emozioni, passioni, dolori e riflessioni, seguendo il filo rosso dell’interesse per le monete belle, rare, antiche (non a caso in copertina è pubblicato un medaglione aureo con il ritratto di Teodorico del Museo nazionale romano). Quelli raccontati sono sentimenti che accomunano molti “nummofili”, tanto che non risulta del tutto convincente  l’affermazione dell’autore secondo cui «i personaggi e le vicende del libro sono frutto d’invenzione e ogni somiglianza con persone vive o morte è puramente casuale».

Capitolo primo. In gabbia

Di come i bisogni materiali scarnifichino i bisogni spirituali
“Il fragore del passato rumoreggia
sui campi dell’assurdo dove i capelli si
arruffano per i pensieri ricchi di universo”.

La stanza cigolava di morte oggi 13 ottobre.
Il cielo era pesantemente grigio e i soldi finiti, almeno per i prossimi
sei mesi.
La nuova casa si era mangiata tutto, come un drago che nessuno
riusciva a domare.
Si era schiusa da un uovo fragile che conteneva speranze deboli
come le ali delle farfalle e filiformi come l’erba, poi erano spuntate
le ossa e quindi le scaglie. Con i mesi era cresciuta e aveva divorato
tempo e pensieri, denari ed azioni. Si stagliava certo contro il cielo
azzurro ora, nella sua giallità smagliante, ma le sue radici avevano
seccato tutti gli altri diletti, anzi, anche tutti gli altri bisogni. E adesso
roteava da sola come un calcinculo impazzito pronta a spaccare i denti
a tutti quelli che volessero fermarla.
E prosciugava ancora il poco latte rancido che i mesi secernevano,
vogliosa come una pasciuta puledra dentata che non ne vuole sapere
di arrangiarsi da sola a brucare l’erba ma cerca ancora le mammelle
spente della mamma sfinita.
Pareva destinata a scoppiare di benessere mentre i visi affilati dei
promotori smagrivano al calare delle giornate.
Ecco che era passato quindi il colpo favorevole dell’acquisto del
tetradramma di Agatocle (305-295 a.C.) con la testa di Kore soave,
serena sul dritto e la Nike sul rovescio; 16,38 grammi d’argento per
27 mm. di diametro: una splendità. La Kore con i capelli voluttuosi,
le labbra sensuali che desideravano solo il contatto con le mie dita, e
poi il listino la infiorettava con queste parole “esemplare superbo, con
bellissima patina scura, 1.200 euro” solamente.
No.
Si doveva pagare il box-doccia.
E il mese prima non era fuggita via l’occasione del denario di L.
Cornelius Lentulus e C. Claudius Marcellus del 49 a. C., con sul dritto
l’altera testa di Apollo e sul rovescio un magistrale Jupiter stante tre
quarti a destra in nudità eroica che tiene fulmine ed aquila? Il listino
parlava di “qualità straordinaria” e i 500 euro erano davvero niente.
No.
Si dovevano pagare le prese elettriche.
E poi era stata la volta dello scudo d’oro di Alessandro de Medici
(1532-1537), una monetina gialla del peso di 3,34 grammi, conio di
Benvenuto Cellini, prezzo solamente 1.500 euro.
Nemmeno questa.
Bisognava pagare la posa in opera del pavimento del bagno e
l’installazione dei sanitari.
Ma vi rendete conto? Una moneta del Cellini, quello che ha fuso
il Perseo che potete vedere a Firenze nella loggia dei Lanzi, barattata
con la posa in opera di quattro piastrelle e un water?
La vita sì che era più chiara adesso: il mutuo avrebbe asciugato tutte
le risorse e scampoli di carta per le monete non se ne intravvedevano
fuori dalla finestra, nemmeno in una giornata piena di luce.
Sembrava che la collezione si assottigliasse ogni giorno di più,
dato che non poteva crescere. Pareva dimagrire come in preda ad una
anoressia misteriosa più che ad un digiuno consapevole, mentre il
cavallo che ruotava nella mia testa scalciava le pareti dell’assurdo,
odiando quella costruzione che sorgendo dalla terra aveva demolito i
miei sogni.
Aprivo le scatoline con i miei nummi gelosi ma il brivido doveva
essere aiutato. La lingua si seccava come la gola e i listini, che il
postino portava, marcivano sullo scaffale della libreria ancora avvolti
nel celophan e quelli on line nella cassetta della posta eliminata.
La collezione veniva suicidata, non poteva svilupparsi, veniva
macellata adolescente. Privata dell’affetto di altri nummi, tolta dal
calore della passione si atrofizzava e non correva più. Le avide monete
non riuscivano più a cibarsi di emozioni e a regalare incantesimi. Il
torrente si era prosciugato e i sassi luccicavano avvolti da una barba di
sabbia grigia, quasi una sciarpa. Non vi era la disponibilità economica
neppure per un comunissimo marengo, neanche per le 5 lire di un
Savoia preso a caso, figuriamoci per uno zecchino veneziano del
Cinquecento.
Non voleva più prendere in mano neanche le monete che aveva
acquistato per ultime. Ma quante ne aveva?
Ma la finite di rompermi le scatole con queste stupide domande?
Cosa ne sapete Voi di Numismatica, di collezionismo, di magia delle
monete antiche. Mi tocca spiegarVi tutto? E adesso pretendete anche
di spegnermi la luce? Non avete sentito che chiudendo la porta è
caduta la chiave? Perché non la raccogliete?
Non fatemi più venire in mente le tre monete che ho perso, sennò
mi incattivisco anche se oggi c’è il sole ed erano due settimane che
non usciva e adesso naviga alto a metà strada tra le montagne della
Lessinia a est e la catena del Baldo ad ovest, capito?
Ma quando mi capita più una moneta con il conio del Cellini? Era
quasi mia, invece adesso c’è il pavimento in bagno e anche le ceramiche
ed il box-doccia così ogni volta che mi lavo mi innervosisco.
Per queste stupidaggini i soldi non mancano mai, per le cose
eterne bisogna sempre aspettare. Come faccio adesso a mangiare
questo piatto di pastasciutta dopo aver sciupato i pensieri a cullarmi
nell’acquisto possibile? No no, non chiamare perché non ho voglia di
parlare di monete oggi. Anzi porto in granaio anche tutti i listini che
ho in libreria perché non voglio più vedermeli davanti, porto su pure
il catalogo Gigante e il Montenegro seguiti dai libri di Remo Cappelli,
Lucio Ferri, Aldo Cairola, Giovanni Gorini, Ermanno Arslan, ma mi
accorgo che aspetto per quelli di Silvana Balbi de Caro.
E non chiedermi poi se ti voglio bene che vado a lavorare solo per
pagare cose di cui nulla mi interessa, sono come una mucca da latte
attaccata ad una catena che arriva fino a Verona. Questa è proprio la
vita che volevo: avere il portafoglio sempre vuoto e la testa sempre
piena di voglie mentre guardo il mio cervello che riempie grigio una
bottiglia vuota di sambuca.
Lo volete capire tutti Voi quante occasioni ho buttato nell’Adige?
Sentite: vado a dare da mangiare alle mie galline così mi rilasso
un po’ a guardarle mentre beccano felici incuranti di tutto. Potessi
essere anch’io come loro. Mangiano, fanno l’uovo e domani è un altro
giorno.
Quasi quasi accendo internet e guardo se c’è qualche occasione…
diciamo a non più di 100 euro, sennò non si può.
Proviamo?
Me li posso scordare i bei tempi quando arrivavo ai mille euro con
il benestare della mia fidanzata innamorata. Allora i colori ad olio
lumeggiavano nella mia mente, mentre adesso sono fogli duri di carta
vetrata che spariscono nella scarpiera.
Non c’è niente sotto i 100 euro. Solamente qualche siliqua liscia
che nessuno vuole.
Sono nervoso, calcerei le sedie se non fossero di plastica e urlerei
contro Dio che permette tutto questo.
Come un ramarro mi arrampico sulle scale e mi butto sul letto
per guardare nel buio. Mi fanno venire la nausea le letture dei libri
di numismatica se non posso comperarmi più niente per i prossimi
dodici mesi come minimo.
Venderei anche i pezzi che ho, pur di prendermi qualcosa di buono.
E quali?
Mi salterebbero negli occhi come tante cavallette zoppe le monete
che ho ingabbiato nelle scatoline di velluto nero, quelle d’oro; nelle
scatoline di velluto rosso, quelle d’argento; di velluto verde quelle di
bronzo o di rame. Rotonde le prime, esagonali le seconde e quadrate
le terze. Tutta una pazzia rilegata ad arte.
Il coperchio si alza come si apre una conchiglia e il tesoro risplende
tanto che il cuore allunga la lingua come una vongola semiaperta.
L’acqua della passione porta tutto l’alimento di cui abbisogna e l’aria
fresca fa respirare le effigi anche se erano abituate a brezze più pure,
senza lo smog di questa strada maledetta che rimbomba di trattori che,
urlanti, vanno alla vendemmia.
Sto guardando l’effige di Federico II Gonzaga che non sa di essere
in provincia di Verona ora, pensa ancora a Mantova e a Palazzo Ducale,
invece è qua con me, risorto e coccolato, come un cucciolo di tigre.
Ecco che spalanco tutte le mie conchiglie e la storia invade
il mio letto come un esercito, come una rete piena di pesci lucenti
aperta all’improvviso. Il fragore del passato rumoreggia sui campi
dell’assurdo dove i capelli si arruffano per i pensieri ricchi di universo.
Il trionfo del pieno radiografa le anime sdraiate dei nummi che si
pascono di ebbrezze sferiche. Pare che gli spiriti si levino dalle bocche
aperte delle scatoline lussuosamente vellutate in un affastellato
intreccio di roboanti fili spadellati. La luce colpisce i dischetti che
rispondono emettendo bagliori che si innalzano a loro volta in un
amplesso pirotecnico. Come spiriti dalle lampade, le vite dei re e degli
imperatori escono dalle monete discorrendo con le mie orecchie, con
le mie dita, con i miei sguardi evitandosi a vicenda per monopolizzare
tutta la mia attenzione. Speriamo che non sveglino i libri della mia
biblioteca: il Corpus Nummorum Italicorum di Vittorio Emanuele III,
il Corpus Nummorum Romanorum di Banti e Simonetti, le opere di
Guid’Antonio Zanetti, i volumi di Jacopo Strada, Sebastiano Erizzo
ed Enea Vico Parmigiano, i tomi del Babelon e del Cohen, i libriccini
di Grierson e Solone Ambrosoli. La confusione satura l’aria e sembra
che centinaia di phon si siano messi a lievitare la Storia per me. Il
brusìo è continuo come al mercato e si alza dalle scatoline come
fossero tante marmitte di motori accesi da poco.
Dove mi vogliono portare tutte assieme?
Comincio a spegnerle avendo già individuato chi lascerò parlare
ora. E’ là in mezzo, una scatola nera circolare con una sfavillante
monetona d’oro nell’incavo rotondo con l’invito inciso per alzarla.
Non è una fattucchiera che mi ha fatto l’incantesimo. E’ Dio che me
l’ha donata. Quando?
Adesso vi racconto.