Memorie di un nummomane, capitolo 7

Prosegue il racconto in prima persona di un appassionato di monete, scritto da un appassionato di monete.

Dopo il sesto capitolo, continua la pubblicazione con cadenza settimanale del libro di Demian Planitzer Memorie di un nummomane. Ovvero: tramonto di un collezionista di monete antiche (pp. 128, Albo Versorio edizioni, Milano 2017, € 9,50).

Capitolo settimo. Ancora in fiera

Di come un’anima riesca a risorgere ricadendo volontariamente in tentazione.

“…sulla mia anima piove biondo miele
caldo che mi inebria i sensi formando
larghe pozzanghere avvolgenti e voluttuose
che lecco volentieri…”.

Mi alzo dopo una notte piacevolmente insonne, sterminata dai
pericoli che racchiudono le monete, malefici pensieri degli uomini
fattisi creature.
Fischiettando inzuppo nel tè bollente alcuni biscotti con le gocce di
cioccolata, l’aria è gentile ed il mondo mi sorride ancora.
Mi spalmo con voluttà la schiuma da barba profumata d’azzurro.
Incido con la lametta tagliando lunghi solchi nel manto nevoso caduto
sulle guance. L’acqua del rubinetto scorre felice a riempire il lavello.
Arriva dalla montagna, dalla profondità della terra per rendermi un
servizio e scordo sempre di ringraziarla. Galleggia ora la schiuma
colorata. Mi faccio il contropelo in ossequio alle monete che mi
vedranno, apro il tappo del lavandino e guardo la polvere bionda
bagnata depositarsi sulla ceramica bianca. Immagino le monete d’oro
che mi attendono sugli stand della fiera. Uno statere di Alessandro
Magno, quello con al dritto la testa di Ercole con la pelle di leone,
magari battuto proprio subito dopo l’incontro tra il Grande Macedone
e Chandragupta, il fondatore della dinastia indiana dei Maurya, noto
anche come Sandrocotto. Immagino i riflessi dell’oro mentre mi spalmo
il dopobarba profumato di bosco e resina. Esco dal bagno soddisfatto
di me, radioso ma il volto della mia dolce metà comunica contrarietà
mentre con uno straccetto bianco agitato spolvera nervosamente,
senza guardarmi, le mensole già pulite. Non voglio rannuvolarmi per
colpa di una donna che non potrebbe mai appassionarsi di monete.
Nessuna numismatica è passata alla storia o forse solamente… Isabella
Gonzaga aveva qualche debole per i nummi.
Ho capito, certo. Non condivide la mia trasferta che farà ancora un
ulteriore buco nel conto corrente disastrato.
Come fare ad evitare quegli sguardi che mi tolgono 50 euro per
volta alla quota che avevo deciso di esporre dopo lungo faticare nel
corso di una notte tumultuosa che rimbalzava contro la mia mente
senza stancarsi?
Tuo figlio ti guarda e ti dice “Papà vai a spendere ancora soldi
in monete?”. Ha solo 5 anni. “Un giorno capirai, Bonnekamp”, gli
rispondo prendendomi la giacca.
Saluto tutti. Via da qui prima che arrivi la tempesta a scatenare il
diluvio di parole.
Ricordati, tu che stai leggendo queste carte: i termini non servono a
nulla, le nostre emozioni non si possono descrivere, si riescono solo a
tratteggiare. Ma se tu avrai la mia predilezione e la mescolerai con la
tua inclinazione capirai ascoltandomi, anche se uso con troppa licenza
questi smunti vocaboli recalcitranti della nostra magica lingua italiana.
Una cosa sola desidero che ti ricordi, e te lo dico così non fai fatica
a cercarla: non ridere di me quando sei tentato di giudicarmi. Perché
sei tu che ti intravvedi in me. E io sto cercando di fare questo sforzo,
dividere me stesso dal cannocchiale del mio io, perché, lo sai, noi
siamo sempre in due: quello che scrive di quello che vive, chi spinge
e chi frena, chi si butta e chi sta a guardare commentando, chi prova
e chi rinuncia.
Queste righe che butto giù ora, sul letto della mia camera, con il
gomito che si pianta nella trapunta tinta panna e così debbo muovere
il quaderno a sinistra per aggiungere le parole e formare le righe… Ma
dove ero rimasto?
Sì, sono già in treno e le montagne mi sembrano festose, sono nella
Valdadige Veronese piena di vigneti con le foglie gialle dell’autunno e
di boschi rossi che osservano l’Adige argenteo che descrive sensuale
la sua storia traboccando dai canneti e creando anse gonfie di trote
Memorie di un nummomane
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e palle di anguille. I campi paiono abbandonati perché i contadini
riposano dopo la lunga vendemmia, accoppiandosi stancamente quasi
ogni sera con le mogli devote.
Immagino gli eserciti che giungendo dalla Germania attraversarono
la Valle ma anche i Romani che si spinsero fino alla Selva Nera, magari
con in tasca il denario che acquisterò tra poco. Mi accorgo che sto
contemplando amorosamente la natura, i sensi resi ultrasensibili dalla
storia e invogliati dal prossimo acquisto su questo proscenio che sono
le vetrate del treno
Abbasso il finestrino per godere dell’aria frizzante, i polmoni stanno
bene e l’avventura si appalesa in tutta la sua radiosità.
D’un tratto mi appare il viso terribile della mia dolce metà che a casa
starà facendo i mestieri seccata e rabbuiata. Non ci voglio pensare:
voglio una moneta da stringere al petto!
Il treno pare volare sulle pesanti rotaie. Nessuno si vede tra i sedili.
Ma non sono solo, il mio cuore è una moltitudine di gioia che mi
abbraccia con calore. E’ uno stormo festoso di uccelli che tripudia nel
cielo. Il passato cerca di me, mi sta venendo incontro in una moneta che
ancora non so quale sia. Sono in mano al destino e al caso. Piacevole
è l’incertezza del futuro che altre mani scrivono per me. Manca poco
e presto sarò in fiera per leggerlo!
Cammino sudando e mi sciroppo i due chilometri su marciapiedi
sporchi di escrementi e grigi di smog, sotto un cavalcavia dove urlano
le macchine inselvatichite. Mi infilo in uno stretto passaggio che
puzza di urina d’uomo mentre una pozza di vomito color vinaccia
dipinge l’asfalto nauseato. Presagi tristi per una visione angelica che
mi attende. Calcio una vecchia scarpa abbandonata e ritorno alla luce
fioca della nebbia di Verona, sono le otto e mi vedo già pronto per la
lussuria visiva.
La porta della fiera, si vede anche da lontano, è chiusa.
Mi giro: il cartello con i led scorrevoli dice che apre alle 10.00.
Cosa faccio per due ore?
Mi tocca ripassare a vedere il vomito e la puzza di piscio umano se
voglio tornare in centro. La mia moneta mi aspetta su qualche banco
e io sono distante due ore interminabili. Che sono 200 chilometri di
treno. Se lo sapevo partivo dopo.
Mi guardo attorno e vedo che iniziano a comparire le prime stationwagon
che aprono i portelloni posteriori per vomitare contenitori
con cartoline d’epoca, francobolli, giocattoli anni ’30 e un sacco di
cianfrusaglie e anche banconote e monete in fogli di plastica trasparente
sporchi e poco invitanti. Qualche curioso si avvicina prudente a quel
deprimente spettacolo. Qualcuno baratta, qualcun’altro sembra fare
affari. Girano attorno coloriti olivastri di visi indefiniti spuntati come
funghi che osservano tutto con sospetto e pronti alla fuga.
Mi tengo lontano quando vedo un piccolo banco appena
predisposto che vende piccoli oggetti di archeologia etrusca: fibule a
sanguisuga incrostate dal tempo e vasellame in bucchero aggiustato
con l’attaccatutto.
Mi eclisso cercando un bar e pensando se sia mai possibile un
mercato così squallido fuori dalla fiera per illustrare la Numismatica,
la regina delle arti, la principessa delle scienze, la meraviglia creata
l’ottavo giorno. E’ come se fuori dagli Uffizi vi fossero bancarelle
a vendere croste. Osservo pseudo-collezionisti che gironzolano tra
gli oggetti come i lucci in mezzo alle trote, pronti ad azzannare. I
commercianti roteano le pupille come gli extracomunitari quando
stendono sugli asciugamani la loro mercanzia. Pare che si concludano
affari consistenti perché i colori delle banconote da 100 euro luccicano
tra le mani di improbabili clienti che le consegnano platealmente
discorrendo ad alta voce con i venditori. Ma sembra più un trucco
per chiamare clienti come con il gioco delle tre campanelle. Eppure
qualcuno ci casca e vuole comperare. Io no. Aspetto che si aprano i
cancelli, che caspita!
Due ore sono lunghe da passare con l’andirivieni dei pensieri anche
perché pare affiorare sempre più, come uno scoglio in mezzo al mare,
il rimorso di spendere per una cosa che per i più è inutile. Questa
sensazione si ingigantisce da sola e sembra nutrirsi di nervi, di polpa
nervosa tanto da asciugare quel po’ di saliva che rimane in gola.
Mi sento come un folle che aspetta l’apertura dei cancelli per
trovare la libertà in un capannone afoso, dove la puzza ammorba l’aria
più di ieri e dove l’egoismo animale degli uomini assomiglia ad una
gelatina spessa che ricopre i corpi dei viandanti che si aggirano come
moribondi tra i banchi di questo girone di peccatori. La concupiscenza
degli occhi precede quella delle mani per condannare per sempre
questi cercatori d’emozioni. Vedo i negozianti di nummi che con
sorridente cattiveria ammaliano questi vecchi adolescenti occhialuti
introdottisi volontariamente in questo paese dei balocchi. I figli del
male ammiccano agli schiavi delle passioni come tante entraineuse
in un bordello pieno di profumi. Chi volete che passi la gioventù con
voi? La più bella o la meno cara?
Come in un labirinto le menti si perdono saltellando sulle monete
esposte che stanno coricate a riposare simili a tante Veneri del Tiziano
con le mani nelle pieghe calde della vita.
Solo le medaglie, alle volte, ti guardano in faccia, i profili invece ti
evitano con la stessa civetteria di una giovane femmina che, lusingata
dagli sguardi, assapora la propria bellezza specchiandosi con le code
degli occhi pieni di fuoco nero.
I commercianti guardano con sospetto le mani che vorrebbero
afferrare i nummi, gli sguardi famelici e le discussioni ad alta voce.
Quando ti rispondono non smettono di roteare dai lati le pupille come
la chioccia che ha paura che i pulcini si smarriscano. Il timore è sempre
quello: che qualcuno sfili una moneta sfruttando la confusione. E allora
girano aneddoti: quello che appiccica le moneta con una ciuingam
attaccata alla fibbia dell’orologio, quello che sostituisce una moneta
buona con una falsa, quello che appoggia le proprie per andarsene con
qualcuna in più.
Il sospetto è palabile sulle fronti dei commercianti e aleggia sui
banchi come uno spiritello malvagio, pare temano che un colpo di
vento faccia volare i loro tesori, per questo li proteggono con fogli di
plexiglass che offuscano i bagliori.
Io pedalo avanti e indietro, prima secondo e poi contro corrente.
Gli altri fanno affari ed io rinvio, alcuni passano, altri rinunciano
malvolentieri, io ondeggio come uno sporco airone cenerino che non
sa su quale sasso appollaiarsi in mezzo al fiume per iniziare a pescare.
Immagino come può apparire il mio viso agli occhi altrui: affilato,
che fende l’aria nella ricerca spasmodica. Cerco in altre facce il mio
sembiante, ma ho come l’impressione di essere, ora, in mezzo ad un
deserto, da solo come un cammello stanco, con la mia insofferenza tra
le giacche che fluttuano, tra i pantaloni che ondeggiano, tra le teste che
rotolano come tante palle da bigliardo. La sensazione che sale dalle
radici della mia coscienza è che prima o dopo mi deciderò, ma quando
e quale moneta sceglierò?
Non quello statere greco, nemmeno quella dracma ateniese,
figuriamoci se una moneta di Taranto, quella con Taras nudo sul delfino:
costano un occhio. Le mie pupille come un telescopio annusano da
lontano i nummi meritevoli, illuminandoli con la luce del mio desiderio
e della mia erudizione che si annoda ai cartellini dei prezzi più bassi
per scovare quello che non sto cercando. Penso a casa e alla mia dolce
metà che frigge come una patata nell’olio pronta ad esplodere. A me
che sono indeciso per colpa sua e che continuo a ripercorrere con un
senso di insostenibile sfinimento gli stessi sentieri senza decidermi. I
commercianti mi riconoscono e guardano le monete che avevo toccato,
accarezzato, voluto. I venditori sembrano tante bestie in gabbia, dietro
il recinto dei loro averi. Ho come l’impressione che mi odino davvero,
che sussurrino fra i denti se mi sono determinato, se ho scelto o se
rinvio ancora. Con lo sguardo della prostituta che sa che la prossima
sarà la fortunata.
Mi pare che nei loro sguardi vi siano ora accenni di rimprovero, di
richiamo nei miei confronti, perché non cedo ma continuo a sfiancare
le ginocchia e la mente. Mi sembra di udire il loro sibilo che dice “ma
allora cosa sei venuto a fare in fiera? A vedere e basta? Come ieri?
Pezzente”.
Cammino sempre più in mezzo al corridoio per evitare le correnti
degli sguardi delle monete e dei commercianti e dei nummoturisti,
allungo solo talvolta gli occhi sui banchi per catturare riflessi come
quando sotto le pergole dei vigneti cercavo tra l’erba le prime
spugnole, ma sono troppo lontani questi magici gioielli. Una nausea
mi sciarpa la gola come un cappio. Mi manca un millimetro per cedere
alla tentazione, un fiammifero per bruciare la paglia intrecciata dei
miei desideri.
Una signora dietro un banco ammira un panino con dentro due
grossi wurstel tagliati a metà che spuntano ingenui. Lo alza e trancia
i due pezzi sporgenti senza alcuna pietà, masticando robustamente a
piene guance.
Mi avvicino perché, vedendo l’impegno, sono certo che non mi
importunerà con tante domande. Non so come ma l’occhio mi parte e
si ferma su di una moneta d’oro. E’ di Luigi XVI re di Francia. Anzi
Ludovico, stando alla legenda. Già mi affascina per il fatto che noi
chiamiamo Luigi chi invece di fatto era Ludovico. La data è 1787,
due anni prima della Rivoluzione francese. La moneta è abbastanza
consumata, buon segno, il prezzo sarà più abbordabile. Sul banco c’è
la scritta del negozio: sono Tedeschi. Indico con l’indice la moneta
alla signora che ha fatto già sparire quasi tutto il panino mentre
guardavo in basso. Lei fa cenno di sì con la testa e stappa una lattina
di birra che spruzza in parte sulle monete la sua schiuma. La donna
ride, pare divertita, appoggia le labbra sull’alluminio e succhia
bevendo. Annuisce tra un sorso e l’altro ripetendo “Ja” come per
incoraggiarmi a prenderla in mano. Cerco di ottenere conferma che
posso toccarla, e lei “Ja” dice pulendosi con l’unghia del mignolo i
bianchi denti dai depositi del panino.
Vedendo quella scena mi viene in mente il Conte Magnaguti, il
grande numismatico mantovano, che, si narra, fosse solito chiedere
a chi voleva toccare le sue monete “non avrà mangiato uova per
caso?”. Perché credeva che l’uovo corrodesse i suoi tesori.
Prendo il luigi d’oro e gusto il suo profilo a sinistra con il naso
aquilino pronunciato, il mento florido e la parrucca stempiata lunga
sulle spalle. Lo giro e mi inebrio come se annusassi un fiore. Miro
il doppio scudo con lo stemma di Francia, i tre gigli, e quello di
Navarra, la lunga catena di nodi, sovrastato dalla corona regale.
Al contatto con la mia pelle la moneta si scalda improvvisamente,
pare pulsare e vivere: è la più bella del mondo, per me, ora.
La signora mi guarda come per dire “Incredibile vero?”. La
conservazione non è eccezionale ma questo è garanzia di originalità.
L’appoggio sul suo supporto e guardo la signora. Ad un tratto
mi accorgo che vicino a me sta un signore anziano che mi guarda
sognante con la dentiera gialla.
“Luigi XVI è stato riconosciuto a Varennes proprio grazie ad un
luigi d’oro come quello, lo sa?”, mi chiede l’anziano fischiando nei
denti finti.
“Era stato a mangiare in una locanda. Un ragazzo lo aiutò a salire
in carrozza. Il re per ringraziarlo gli donò un luigi d’oro. Il ragazzo
riconobbe il re nel ritratto impresso nel fulgore del metallo, chiamò
le guardie e così fu arrestato. Chi ci dice che quel luigi non sia
proprio questo?”. Concluse il dotto guardandomi curioso.
Di Varennes mi ricordavo, di Luigi XVI anche, dell’arresto pure,
ma che a tradirlo fosse stata proprio una sua moneta, non lo sapevo.
Sorrido girandomi verso la signora che nel frattempo si è seduta a
leggere un libro incurante del suo banco con tutte quelle monete.
“Quanto costa?”, chiedo sussurrando perché nessuno attorno mi
senta ed indicando il luigi d’oro, come se la donna non l’avesse
capito.
La donna si alza, mi guarda, indica la moneta che avevo preso in
mano.
“Sì, quella”, pronuncio con trascuratezza per non fare intendere
che mi interessa tanto.
“Duecentocinquanta”, esclama in un italiano stentato la Tedesca
sbattendo con la lingua sulle “t”.
Prendo in mano la moneta per cercare forse un consiglio da lei.
Mi sento come appeso ad una parete: se compero sono felice ma
la mia dolce metà mi pianta il muso per una settimana. Se recedo
divento triste e pianto io il muso a lei per una settimana e più.
Quegli attimi infiniti mi uccidono e mi umiliano davanti alla
commerciante che si è rimessa a sedere e a leggere un libro che sulla
copertina porta uno strano titolo “Emozioni Numismatiche, apologia
del nummofilo”.
Mi compare in un baleno il viaggio a casa con la moneta nel
portafoglio e i commenti della mia dolce metà dopo le rincorse della
mia coscienza sul tappeto del rimorso.
“Che fare?”.
“Va bene, la prendo”, sento nelle orecchie qualcuno che pronuncia
questa frase che mi dà un senso di liberazione e trangugio un sospiro
velenoso per la battaglia futura evitata, a casa, per presentare
l’acquisto.
Invece ero stato proprio io a parlare. Le cinque banconote da 50
euro passano infatti dal mio portafoglio alle manti unte della signora
sorridente.
Mi ripone il luigi d’oro in una taschina di plastica e me lo consegna.
Ogni parola è superflua.
Ogni frase è inutile.
Sento la mia anima invasa improvvisamente da una meravigliosa
alba arancione, e i miei rimorsi rimpicciolire come ombre alla levata
del sole.
“E’ mia adesso?”, chiedo meccanicamente alla signora.
“Ja!”, mi risponde sorridendo e mettendo le banconote arrotolate
nell’incavo del seno che vedo ora prosperoso.
Mi porto la bustina al naso e l’annuso come fosse il bocciolo di
una rosa.
“Sei mia, ben arrivata!”, le sussurro innamorato mirandola come
fosse una reliquia della Santa Croce e io il sacerdote.
Improvvisamente la gente se ne va, gli stand volano via
impetuosamente, la fiera evapora lontano come una nebbia
insignificante. Il centro del mondo sono io e la mia moneta, ora, che
mi canta del passato. Sagome grigie scappano in lontananza come
gatti spaventati alla ricerca di ciò che non esiste, infilo le porte e
abbandono quel casinò tentatore diretto contro l’iceberg dell’assurdo,
sono soddisfatto della vincita che mi ha calmato i nervi, riempito le
voglie, esaurito le brame come dopo un amplesso pieno e fortunato.
“Sì, ti porto con me ora”. E se qualcuno mi ruba il portafoglio?
Giacché l’ho messa dentro il portamonete. Meglio controllare perché
non si sa mai. Ma dove? Qui sotto questo cavalcavia assordante? E
se qualcuno vede il bagliore dell’oro? E lo scontrino? Mi accorgo
di non avere la ricevuta d’acquisto. Qualcuno mi sta seguendo
chiedendomi se l’ho rubata? Basta discorsi: è mia e l’ho pagata. Ora
stai con me, sei mia, non temere.
Il senso del possesso del passato mi riempie di godimento, vado
verso il treno e già mi vedo seduto alla mia scrivania a mirare sotto la
lente questo capolavoro. Per prima cosa dirò che è costata 150 euro.
Se dicessi 250 a quella verrebbe un infarto. Ma forse è meglio stare
sui 100. 150 sono troppo tondi, suonano tanti. E se dicessi 80 euro?
Ci crederebbe? La reazione non sarebbe certamente così devastante
come se pronunciassi questo parolone: duecentocinquanta.
Sì, forse 85 euro è la cifra giusta.
Ma perché devo pensare a queste giustificazioni rovinandomi
subito il piacere dell’acquisto invece di dedicarmi alle vibrazioni
che mi trasmette, come un grosso ripetitore, la mia nuova moneta?
Prendo la gomma e cancello dalla targhetta di cartoncino infilata
nella busta, dove sta scritto nell’angolo a destra, in basso 250, il
2 e lo 0 e scrivo con la matita 8, con sicurezza leziosa. Alla fine
sono numeri, segni strani che non hanno alcun senso. Non sembra
nemmeno che vi siano state correzioni sul talloncino, adesso che
guardo bene. Forse è costata davvero 85 euro, e mi sono inventato di
averla pagata 250. E il prelievo al bancomat? Dirò che ho dovuto fare
benzina e cambiare l’olio… Sì, la cifra ragionevole per un capriccio
inutile sono 85 euro tondi. Una moneta d’oro consunta e conservata
male non può valere 250 euro, dai.
La prendo in mano, la miro estasiato, stando ben attento che
nessuno mi guardi: “ti avrei comperato anche per 300 euro sai.
Non ti avrei abbandonato per nulla al mondo. Quante fiere di
numismatica avresti ancora dovuto sopportare prima di concederti
un meritato riposo di decenni? Tranquilla ragazza, ora ti proteggo
io”, sussurro all’oro giallo meraviglioso in confidenze da amanti.
Il treno rincorre il mio paese che aspetta, scendo, salgo in macchina
e arrivo a casa.
“Hai trovato qualcosa?”, mi chiede subito la mia dolce metà
prima di salutarmi e ancora con la scopa in mano.
“Sì, dai, una cosina”, rispondo distratto togliendomi le scarpe ed
infilandomi le pantofole.
Tolgo con noncuranza la moneta dal portafoglio e la faccio saltare
sulla tavola come per dimostrare che non è certo preziosa. La mia
dolce metà la guarda senza prendere in mano la bustina trasparente
“e quanto hai speso?”. Non quanto costa, quanto hai speso capite?
Allungo la taschina di nylon che contiene il cartoncino con le
caratteristiche della moneta ed il prezzo.
Subito azzanna l’85 e mi guarda.
“Non hai speso molto”, pronuncia convincendomi che quello è il
prezzo che ho davvero pagato.
“Era un banchetto di Tedeschi infatti, e poi è consumata e ha una
mancanza ad ore 14.00”, con l’unghia del mignolo le faccio vedere
dove.
Mi riconsegna la moneta e si sposta a condirmi la pastasciutta. Io
prendo la moneta, ammicco complice, la rigiro nelle dita e la saluto.
Mi siedo a mangiare. E’ fatta, forse! Oppure che faccia a posta a
crederci?
Le donne sono come i lampadari: a volte servono proprio, altre
non servono a nulla.
Non vedo l’ora di mescolare il luigi d’oro con le altre monete della
mia collezione e vedere cosa dicono, ma non posso farmi vedere così
entusiasmato per l’acquisto, sennò capirà che il valore del nummo
è diverso. Mi metto allora al computer a leggere qualche passo di
Silvana Balbi de Caro, che fa sempre bene. Per il momento ho vinto
io e tu sei salva. Ma non bisogna tradirsi per qualche giorno almeno.
Oggi è meglio che vada a dare una mano su a mettere a posto il
giardino della casa nuova, così il sospetto si allontanerà ancora di
più come una mongolfiera in cielo.
Sono colmo di beatitudine, cullo il mio nuovo acquisto come il
beneficio di una guarigione meritata. Sono ben disposto verso tutti e
vedo in ogni cosa bellezza e felicità.
Cammino sui petali dei fiori accarezzando con le mani le foglie
benevole del destino, sulla mia anima piove biondo miele caldo
che mi inebria i sensi formando larghe pozzanghere avvolgenti e
voluttuose che lecco volentieri.