Memorie di un nummomane, capitolo 13

Prosegue il racconto in prima persona di un appassionato di monete, scritto da un appassionato di monete.

Dopo il dodicesimo capitolo, continua la pubblicazione con cadenza settimanale del libro di Demian Planitzer Memorie di un nummomane. Ovvero: tramonto di un collezionista di monete antiche (pp. 128, Albo Versorio edizioni, Milano 2017, € 9,50).

Capitolo tredicesimo. Giro di trottola

Di come una brutta notizia apporti più bene di una bella novità.

“Sono in treno che corro all’indietro
verso casa, trapassando il buio nel
mantello della notte, tra forchette di stelle
che mescolano l’universo”.

L’Indiano sceglie un locale proprio di fronte alla fontana per
studiarla meglio, suppongo. E’ assorto, il compito lo assorbe e si vede
che è molto concentrato, ma ancora non mi chiede perché ho lanciato il
mio anello nella conchiglia. Come il prete che nella confessione sente
l’elenco dei nostri peccati ma non chiede perché li abbiamo commessi.
La gente si dirada, è l’ora di cena e l’Indiano sembra apprezzare
molto gli spaghetti all’amatriciana. Con la bocca soddisfatta tira su la
pasta ungendosi il mento imberbe che, subito, la mano pulisce ancor
prima che la pasta scenda in gola. Anche il vino scorre nelle fauci
compiaciute. Il piatto velocemente si svuota e io scopro che mi piace
guardarlo mangiare con gusto, come quando a casa trascorro delle ore
ad osservare le mie galline beccare il grano che servo nella vecchia
padella senza manico.
La vetrata induce a non dimenticare la statua del Bernini e io penso
al pezzo da tre solidi che guarda in su la luna. E’ una luna splendente
che si è alzata volonterosa da est ed illumina di bianco la fontana di
pietra chiara.
L’alone luminoso pare un vapore benevolo che però nessuno può
respirare. Le gambe della gente camminano sempre più veloci verso i
piatti della cena. La mia moneta sorride ora alla luna come non faceva
da 1500 anni buoni, perché brutalmente rinchiusa in teche e cassette
come un pesce nell’acquario. Adesso mi piace pensarla, ma non so
il perché, nuotare nella conchiglia come un pesce d’oro che cerca il
mare.
L’Indiano è troppo occupato con la forchetta per leggere nei miei
occhi i pensieri che scorrono. Cosa ne sa lui di Teodorico, che il solido
è l’erede dell’aureo romano, che … quella moneta forse è l’unica
che sia stata mai coniata… e quindi non è, propriamente, una moneta
bensì un medaglione…
Mi vedo a Roma seduto con uno sconosciuto, il conto da pagare e il
treno che non mi aspetta e la mia dolce metà preoccupata.
“Ci vuole una torcia”, esclama l’Indiano dopo aver azzannato lo
spezzatino che entra fumando nella sua bocca, prontamente spento da
un generoso sorso di vino rosso.
In effetti anche se la luna fa il suo buon lavoro, lassù non c’è chiaro
sufficiente per vedere una moneta nell’acqua. Non l’avevo pensato,
anche se avvertivo la sensazione che della moneta non mi interessasse
più di tanto ormai. Poteva benissimo non esserci che non avrei fatto una
piega. Ma non era una delle più rare monete al mondo, come l’aureo
di Postumo battuto in Germania a 280.000 euro solo l’estate scorsa?
Non era più rara delle 80 lire di Vittorio Emanuele I? Coniate solo
in 968 esemplari? Dov’era finita l’armonia che mi regalavano questi
tesori? Possibile non avvertissi più il loro entusiasmante abbraccio?
Ero guarito?
L’Indiano adesso infilava in bocca le zucchine zebrate dalla griglia,
le melanzane sottili bagnate da un filo d’olio d’oliva verde smeraldo,
i peperoni gialli gentilmente scottati. Perché sentivo il dovere di
riempire la pancia a quel disgraziato? Perché provavo piacere nel
vederlo mangiare? Nel vederlo soddisfatto ad ogni forchettata che si
levava dal piatto come un rito magico? Perché mi lusingava sentire i
suoi mugugni gutturali, simboli di apprezzamento per ogni boccone
prelibato? Forse perché solo un’ora prima era seduto dietro il fusto ad
abbrustolire castagne?
Era pulito, non c’era niente da dire, per essere un ambulante forse
clandestino.
Memorie di un nummomane
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“Ce la fai a salire sulla fontana?”, chiesi mentre mi accorgevo
che la distanza tra lui e me, la mia superiorità precedente si erano
dissolte d’un tratto. Lui annaspava con un cucchiaino in un profondo
bicchiere dove strati di tiramisù e panna incipriati di cacao si
stringevano l’un l’altro per difendersi dagli assalti dell’arma.
“Cosa hai perso in realtà?”, mi risponde in un italiano limpido,
inghiottendo una cucchiaiata di dolce e tirando su con il naso, non
so se per sentire il profumo o per il raffreddore.
Sentivo di non riuscire a comandare ai miei occhi, immaginavo
il loro comportamento sfuggente e timido, avevo la certezza che
dimostrassero inequivocabilmente il mio disagio, il mio imbarazzo,
la mia menzogna.
Perché quello, a pasto finito, era diventato così lucido?
“Io sono un trapezista”, esclamò soddisfatto indicando al
cameriere che il tiramisù era talmente buono che era meglio fare il
bis a mie spese.
“Ella Maddonna!”, mi venne da esclamare, tra me e me, in
veronese.
Il cameriere aveva però guardato me per avere conferma
dell’ordine, come se l’Indiano fosse stato il mio bambino.
“Sì, senta, altri due!”, confermai la richiesta sicuro e perentorio.
L’Indiano apprezzava il mio buon cuore, che comunque destava
in lui ancor più sospetto sull’operazione.
“Lavoravo in una compagnia di trapezisti, ci chiamavano gli
Agadir perché, a parte me, erano tutti del Marocco. Facevamo
spettacoli, sai, nei circoli, nei parchi divertimenti, a Gardaland…
camminavo sulla fune, facevamo la torre umana, saltavamo sulle
altalene, bravi sai…?”
“Quindi cosa vuoi che sia per te salire sulla fontana”, dissi.
“Vedrai, dimmi che cosa devo cercare”, precisò guardandomi
fisso con gli occhi, neri, profondi, meditativi, smettendo di masticare
e dondolandosi sulla sedia senza tenersi al tavolo.
“Una moneta grossa come due euro che è finita là…”.
Questo confidai, pentendomene subito dopo. Ma avvertivo una
strana armonia con quel tipo, sentivo di fare bene ad essere sincero
con lui, in fondo capivo che di lui mi potevo fidare.
Ma forse adesso potevo pure scordarmela. Il giochetto era semplice:
mi avrebbe detto che non c’era per andare poi a riprendersela da solo.
“E quanto vale?”, proseguì.
“Ascolta bene amico, ti ho dato da mangiare e bene. Qua ci sono
100 euro che sono tuoi, non fare scherzi, capito?”, mi irrigidii così,
contro voglia, ma la situazione esigeva quel comportamento da me.
“Amico, non ti preoccupare, Amid è onesto sai? No ladro”.
Non ero rincuorato ma mi pareva che parlasse con una severità
monacale.
“Quanti anni hai?”, chiesi.
“22”
“Bene, allora mi posso fidare di te”, conclusi.
Mi alzo, vado in bagno per rinfrescarmi un po’ e per riflettere da solo,
per scavare dentro me stesso e capirmi in quella giornata, raccattando
quelle parti di me che mi avevano fatto strani scherzi, strani progetti,
che avevano imboccato strade illecite e mai percorse. Non potrei dire
quanto rimasi nel bagno ricoperto di marmi neri. Per quanto tempo mi
bagnai il viso scrutandomi nello specchio scuro mentre i miei pensieri
giravano attorno come avvoltoi sul mio dilemma.
Quando torno l’Indiano non c’è più. Guardo il cameriere per capire.
Lui mi fa cenno verso l’angolo della vetrata.
L’Indiano è là che guarda fuori sognante come un bambino. Pare
tornato a casa con il pensiero. Forse immagina di trovarsi, per qualche
momento, nella parte di mondo che gode del benessere e osserva con
nuovi occhi chi cammina nei caldi piumini e nelle scarpe di marca.
L’oscurità brucia ma lo protegge, eppure se ne rende conto che
domani sarà ancora tra chi deve inventarsi qualcosa per tirare avanti.
Ma intanto beve la piazza con gli occhi e riposa beato sul divanetto
trapuntato di beige. La sua carnagione si confonde nell’angolo buio
ma gli occhi brillano come quelli di un gatto.
Non me la sento di rompere quell’incantesimo, non voglio toglierlo
dal suo mondo, forse pensa a casa, forse vede l’India in fondo al suo
cuore dove nasce lo spirito e il corpo, forse annusa i capelli neri della
sua fidanzata che lo aspetta, forse ricorda quando lei si ravvivava
le chiome mentre uno sguardo di velluto nero la rendeva più bella,
quando il suo sorriso decorava la natura facendo invidia ai fiori
sbocciati, quando accavallava le gambe e infilava voluttuosamente le
dita tra le cosce serrate.
Vedo anch’io gli elefanti, le foreste lussureggianti e le tigri nei suoi
occhi, vedo il profumo dei mercati pieni di spezie e sento i mille colori
sgargianti dei lunghi vestiti pieni di inserti d’oro che noi Europei
scordiamo sulle nostre donne. Avverto la soavità dei sorrisi degli occhi
e la serenità delle anime.
Qual’ è la cosa più importante, mi chiedo, questa treccia di emozioni
o quella moneta che occhieggia lassù? Che dovrebbe incantarmi di
più? Quel Teodorico di 1500 anni fa che non immaginava nemmeno
che l’India fosse forse più sterminata dell’Impero Romano?
Sorseggio un caffè e non mi decido a chiamarlo. Rispetto la sua
solitudine del cuore e i suoi segreti, il suo passato e il suo presente.
Mi scopro svuotato del mio cinismo che negli anni si è sedimentato
a spessi strati dentro di me, coprendo i sussulti del mio spirito che
come fossili ora giacciono nascosti. Un’acqua cristallina lava via
il mio egoismo numismatico che come fanghiglia mi copriva gli
spicchi dell’anima fino a pochi minuti fa. Benessere e beatitudine
mi invadono inondandomi di freschezza e di pace, di immaterialità
e forse di fede negli uomini, nelle anime degli uomini. Vedo il mio
cuore leggero, luminoso, aperto, disposto a bere zampilli di nuova
vita che sgorga da me, dalle mie membra; vuole riempirsi d’altro,
non annegare ancora nelle paludi del passato che per nessuno ormai
conta più.
Il torace nudo, largo e forte del Tritone si erge nella gelida notte
romana sfidando l’acqua che scende dall’alto zampillando sui bicipiti
e invadendo la schiena, le gambe a coda di pesce scivolando in un
appoggio malfermo, i muscoli si tendono da secoli, i nervi contratti
testimoniano che è possibile uno sforzo eterno, senza riposi, senza
soste, senza ripensamenti, come per gli eroi più invincibili.
Non mi so decidere. Quel momento mi riconsegna la vita, mi pare
così colmo di beatitudine e così irreale, quasi santo che non voglio
mettergli termine. Anzi forse è proprio la consapevolezza che la mia
volontà può rompere l’incanto che mi fa gustare ancor di più quello
status.
Camerieri che camminano stanchi, un caffè bevuto da vecchie
labbra, un’oscurità tenue e sensuale, un corpo in allerta ed una statua
sveglia, pronta a partire.
Vorrei non nascesse più il sole di ieri, vorrei che il gelo cristallizzasse
gli zampilli, vorrei vedere il torace del Tritone coperto di ghiaccio
levarsi a sfidare l’inverno, con la fontana che non gorgoglia più la
sua secolare cantilena.
“Mon amie, non c’è”, mi confida Amid sconsolato. “Non
c’è quello che cerchi, ma hai trovato un tesoro più grande”, mi
suggerisce silenzioso inondandomi con gli occhi dell’India.
“Sei già stato?”, chiedo quasi con un senso di liberazione.
“Sì, solo monete di ferro”, continua amareggiato per non essere
riuscito a trovare quello che tanto desideravo, tuttavia immerso in
altri ragionamenti.
Vedo che ha i pantaloni bagnati fino alle ginocchia, ha un torcia
appoggiata sul divanetto, e le maniche del maglione sono ancora
arrotolate e fresche d’acqua. La pelle degli avambracci è scura,
quasi invisibile nell’ombra.
Non mi pareva di essere stato così a lungo in bagno, mi confidai.
E’ vero, mi ero osservato indistinto nello specchio maestoso.
Avevo notato una inattesa armonia nel mio essere. Una calma
luminosa, una pacatezza spirituale che pareva sublimarsi in un
futuro completamente nuovo. Eppure non capivo la ragione di
queste sensazioni, mentre osservavo il marmo bruno guardarsi
nella superficie riflettente come una grotta misteriosa.
Ed ora, appena uscito dal quel particolare contatto con me stesso,
Amid mi ridonava effettivamente innocenza, serenità, libertà dal
passato e dal presente. Forse per la prima volta nella mia vita, stavo
prendendo coscienza di me stesso, una frase che prima non avrei
mai capito.
Avrei cantato un inno che innalzandosi avrebbe trasferito, lo
sentivo, la mia malinconia sulle cime più alte degli alberi, per
arrampicarsi poi sulle nuvole e poi ancora più su, a guardare il
mondo dalle note vibranti nell’aria, dalle schiene degli uccelli che
in stormo si fanno beffe dei pensieri degli uomini.
Quanto valeva tutto questo? Centomila euro? O di più?
Come in una mano a briscola, mi accorgo che sono più
orgoglioso di aver pescato il due di coppe che l’asso di spade che
vince tutto. Mi accorgo che in fondo al cuore avevo desiderato
che non vi fosse nulla nella conchiglia, così da uccidere nel petto
il dubbio che mi mordeva l’anima e che mi aveva fatto cadere il
cuore nelle scarpe. Ma ora non mi sfiora nemmeno il sospetto che
Amid mi voglia fregare. Lo sguardo di fuoco nero brucia una vita
armoniosa, alimenta sguardi fiduciosi, possiede la contemplazione
che noi Europei non abbiamo mai conosciuto, quella profondità
insondabile ed inimitabile. Il pezzo da tre solidi non c’è perché non
l’ho rubato: tutto qua. Vi pare poco?
Ritorno pulito come una pecora appena tosata, rivivo limpido,
leggero come curato da una malattia mortale che aveva messo radici
dentro di me da decenni.
“I cento euro te li do ugualmente, sai?”.
“No, basta la cena, amico. Grazie. Come ti chiami? Demian? Strano
nome”.
Ho come l’impressione che Amid esca attraverso le vetrate scure,
trapassi le fioriere d’alloro e volteggi nella piazza come una libellula
nera.
Guardo nell’angolo e non lo vedo più, il cameriere sta lavando le
tazzine al bancone.
Due lacrime mi annaffiano gli occhi e tiro sul col naso.
Sono le otto e faccio ancora in tempo a saltare sul convoglio delle
nove, redento, purificato, riscattato.
I marciapiedi chiamano le mie scarpe, le vie mi risucchiano, i
palazzi si spostano, i semafori mi salutano, un nugolo di storni suona
l’arrivederci. La luna osserva l’antica capitale, è la stessa che guardava
l’Imperatore Augusto, la medesima che illuminava la scrivania di
Virgilio, proprio quella che faceva risaltare la pelle sensuale di Lesbia,
rendendo Catullo schiavo d’amore, sempre uguale e mai stanca.
Sono in treno che corro all’indietro verso casa, trapassando il
buio nel mantello della notte, tra forchette di stelle che mescolano
l’universo. Il mio corpo ritorna a riempire il vuoto che il destino mi ha
assegnato, a remare tra le vite degli altri che Dio mi ha messo vicino e
che per un po’ ho provato a cambiare per poi chiudermi in un silenzio
infinito, arrogante di superiorità intellettuale.
Penso ad Amid che setaccia le conchiglie di pietra piene d’acqua e
poi lo vedo guardare fino in India le stanze della sua infanzia, respirare
i profumi della sua calda terra, abbracciare sua madre che da anni
l’aspetta.
Mi accorgo che fuggo da solo per tornare al mio inutile presente,
per affogarvi dentro e non pensare così ad altro.
La velocità mi addormenta a Firenze per risvegliarmi a Verona.
Di quel buco di tempo nessuno mi può raccontare. Guido verso casa,
vado incontro alla mia vita che mi aspetta per riattaccarsi al mio corpo
come una cravatta o forse per mangiarmi. Tiro surreale il cancello
scorrevole inchinandomi al morbido destino, rientro nella mia vita
come infilandomi un vecchio abito, sì, mi siedo al mio posto, ma vi
porto nuovi fiori di luce con cui rattoppare la stoffa. Le stelle brillano
anche qua e la luna ora è a ovest, ha corso più di me per farmi una
sorpresa.
Un cinghiale grugnisce cercando tuberi vicino al guardrail che corre
lungo il mio giardino. I boschi anneriscono le montagne disegnandone
i profili morbidi, la neve generosa brilla tra le cime sul prato di Cerbiolo
come una striscia di luna.
Giusto così, che Teodorico re degli Ostrogoti rimanga nei libri a
raccontare di sé, di Boezio e Cassiodoro, di Ravenna e Senigallia, una
delle città della Pentapoli. Teodorico che regnava dal Danubio alle
colonne d’Ercole, che aveva sconfitto Odoacre a Verona, Odoacre
che si ritirò a Ravenna e dopo la resa fu fatto uccidere da Teodorico.
Teodorico che trattava con Genserico re dei Vandali, con Alarico re
dei Visigoti, con Gondebaldo re dei Burgundi, con Clodoveo re dei
Franchi ma che poi non riuscì più ad andare d’accordo con l’Imperatore
Giustino ma soprattutto con Giustiniano.
Ma allora la moneta da tre solidi, esemplare unico, quando e per
quale occasione fu coniato? E perché finì a Senigallia?
La palpitante scoperta della vita nelle monete che è riuscita a
sforbiciarmi giorni, mesi ed anni è stata, in fin dei conti, tutta una
maledizione?