Memorie di un nummomane, capitolo 9

Prosegue il racconto in prima persona di un appassionato di monete, scritto da un appassionato di monete.

Dopo l’ottavo capitolo, continua la pubblicazione con cadenza settimanale del libro di Demian Planitzer Memorie di un nummomane. Ovvero: tramonto di un collezionista di monete antiche (pp. 128, Albo Versorio edizioni, Milano 2017, € 9,50).

Capitolo nono. Palazzo Massimo

Di come si passi quasi involontariamente dalla tentazione all’azione.

“Sgomitano gli imperatori ed i re
gemendo come farfalle infilzate
dagli spilli dell’odio, condanna
silente ed atroce”.

Tre ore meno dieci per arrivare alla Stazione Termini, dove tra
migliaia di persone non c’è n’è una che pensa di andare dove vado io.
Sono in piazza dei Cinquecento, palazzo Massimo è là a sinistra
uscendo dalla Stazione.
E’ un palazzo Ottocentesco quasi quadrato. Nei piani superiori
vi sono statue greche e romane ritrovate negli scavi tra Ottocento
e Novecento a Roma e dintorni. C’è il famoso pugile seduto,
un’incredibile opera in bronzo di Lisippo, ma anche un Dionisio,
un Discobolo e l’ambiguo Ermafrodito dormiente, tre capolavori in
marmo bianco che radunano gli sparuti visitatori. Sotto, nel piano
interrato, c’è la magia: la collezione di Vittorio Emanuele III e quella
di Francesco Gnecchi. Anzi del doppio Re (d’Italia e d’Albania) ed
Imperatore d’Etiopia Vittorio Emanuele III, lo scordiamo troppo
volentieri che quel piccoletto, che quando si sedeva aveva le gambette
parallele al pavimento, era uno dei pochi imperatori al mondo, a lato
di quello inglese, di quello persiano e di quello giapponese.
Per meglio dire, a palazzo Massimo c’è prima la collezione Gnecchi
e poi quella dell’Imperatore. Perché il primo raccoglieva monete
romane mentre il Savoia dal Medioevo in poi.
È un tripudio di aurei, denari e sesterzi degli imperatori romani, le
più rare e belle, ventimila ne aveva accumulate lo Gnecchi, il famoso
numismatico, mentre tra le centomila di Vittorio Emanuele vediamo
le più incredibili monete italiane dall’età dei Comuni in poi, sprecate
in un sotterrano, sotto un vetro trasparente per proteggerle da polvere
e voglie.
Vortico tra le vetrine in preda ad un affanno che non mi lascia
respirare la mente. Gli occhi vengono colpiti dalle immagini dei nummi
come neve ghiacciata di dicembre.
Sono come tante televisioni che trasmettono contemporaneamente
un programma diverso, l’avete mai viste in un supermercato di
elettrodomestici? Non siete rimasti come storditi, non avete perso
quasi l’equilibrio?
La storia trasuda dai metalli, ribollendo un silicone unto che odora di
vite rinchiuse. Sgomitano gli imperatori ed i re gemendo come farfalle
infilzate dagli spilli dell’odio, condanna silente ed atroce. Vago con la
pienezza che si dirama dai miei piedi cancellando le ore bigie di una
mattinata romana. I muri espirano arsura mentre fuori siamo a zero
gradi e forse anche meno. Le voci cominciano ad alzarsi dai metalli
muti, il vociare si amplifica, il chiacchiericcio si moltiplica, compare
il brusìo di un mercato pieno di odori ed aromi e colori. Il tempo si
arriccia rimboccandosi le maniche e gli anni saltellano come pesci sodi
ed argentei sul prato. Le luci si accendono quando la mia sagoma vuota
ondeggia tra gli espositori cercando le anime dei vivi. Ma le monete
mi parlano poco perché nessuno può comprarle, non sono in vendita
come quelle ordinate sui banchi delle fiere, non devono stuzzicare
l’appetito dell’acquisto. Sono il solo che contempla il passato che
frigge stretto in una trappola di pochi metri. Vorrebbero fuggire, non
le sentite? Vorrebbero ancora la libertà, non stare in quell’acquario
polveroso e caldo. Vorrebbero correre nelle mani degli appassionati
collezionisti, viaggiare attraverso il mondo, perché sono stanche delle
fermate imposte dalla fortuna. Prigioniere, sì prigioniere dello Stato, in
un carcere chiamato museo, con carcerieri che non intendono.
Un aureo di Traiano mi guarda altero, più in là Adriano riflette
pensieroso, poi Pertinace sembra nervoso e, vicino, Augusto
imperturbabile e poi genovini, fiorini e zecchini che raccontano poco
o quasi, e doppie, quadruple e piastre meravigliose e impossibili in un
silenzio vischioso e sconfortato.
Ma ecco che vedo l’incredibile: il medaglione di Teodorico.
Quell’ufo di luce ritrovato a Senigallia che lo Gnecchi non perse
tempo a rintracciare ed acquistare. Unico, introvabile, appassionante.
La mente vaga sulle mani di chi lo trovò e si sofferma sull’ingiustizia
che l’ha voluto annegato tra centro altre monete, prodotto anomalo di
una storia stellata. Non ci sono custodi e nemmeno telecamere, forse.
Il desiderio di toccarlo mi assale e di rubarlo ancora di più, inaudito.
Passo freneticamente ancora, un’ennesima volta, tra le vetrine
e studio inconsciamente se vi sia la possibilità di alzare la teca. Il
medaglione è proprio in mezzo e pare non voler andarsene, invece
non è vero, non può esserlo, ecco perché il desiderio, mortale, di
raccoglierlo, di afferrarlo mi avvinghia tutti i sensi che ho affinato in
decenni di laboriosi studi numismatici.
Lo sguardo dei miei occhi si posa sul viso ieratico di Teodorico che
non è ritratto di profilo, ma di fronte, come tutte le monete bizantine.
Chissà chi era l’incisore, dove si è messo ad abbozzare il ritratto, dove
è stato fuso il conio e quali mani hanno battuto poi il disco… Il vetro,
addentato da alcuni morsetti d’acciaio, non si può alzare e nemmeno
spostare.
Il re mi guarda stanco di quelle stanze, forse bramoso di pendere sul
petto di qualche collezionista inutile ma innamorato.
Salgo in biglietteria e chiedo se sia possibile fotografare il rovescio
di alcune monete, per il libro che sto scrivendo e che state leggendo.
Il responsabile mi domanda del libro e mi pare interessato mentre mi
fissa negli occhi e mi infila nelle orecchie altri interrogativi inutili.
I morsetti che trattengono il vetro sono chiusi da lucchetti e tutto
è protetto da un sistema d’allarme. Le monete sono distanti tra loro
e a volte, tra quelle in oro e in bronzo, sembra mancarne qualcuna.
Non vi sono targhette che ricapitolino le caratteristiche dei nummi,
come invece sugli stand delle fiere. Stupidamente un commento è
appeso in alto e racconta come le varie serie siano di uno o di un altro
imperatore, niente di peggio.
Mostro attenzione ed ispirazione sui grandi sesterzi in bronzo che
brillano poco, dopo che il custode ha alzato il vetro, giro sul rovescio
nascosto i nummi e fotografo con maniacale semplicità discorrendo di
monete e annaffiando le frasi con la curiosità che non mi manca certo
dopo trent’anni di numismatica, e vorrei vedere.
Riponendo le monete compio degli ampi movimenti distanziandole,
al momento di ricollocarle, sempre più di prima. Con la coda
dell’occhio controllo i 3 solidi di Teodorico che il custode non nota
ma non deve nemmeno capire che mi interessano.
In questi delicati minuti mi rimbalza nelle orecchie “Purple rain”
di Prince, con le sue volute maestose, il suono profondo e solitario
come un canto nel deserto della solitudine per poi traboccare sulle
ramificazioni del mio io. Le monete paiono ripetere con me il ritornello
“purple rain – purple rain”, come la colonna sonora del film di cui
sono il protagonista, o forse voglio solo pensare a qualcosa per non
dovere pensare affatto.
Ogni tanto tossisco sulle monete per verificare il grado di attenzione
del custode. I nummi sono tanti e le foto digitali si susseguono con
calma e mansuetudine. L’uomo sbadiglia mettendosi le mani sulla
pancia abbondante, sempre più convinto dell’inutilità di tutto il mio
lavoro come anche del suo e dell’intero museo in cui butta la vita ogni
giorno.
Ora prendo un taccuino e comincio ad appuntare le descrizioni dei
nummi e il mio amico comincia a seccarsi, ma non può dirmi nulla.
Fotografo e riporto decine di monete, mentre quello si siede dietro
di me per controllarsi sotto le unghie. Siamo io e lui con la collezione
Gnecchi a disposizione.
Non ero partito da casa, si capisce, per prendere i tre solidi di
Teodorico, ma adesso che sono qui non ce la faccio a controllarmi,
le monete sono così tante che una in più o in meno non fa differenza,
mentre per me sì.
Tossisco e prendo un’altra penna dalla valigetta mentre il custode
sbadiglia anche con gli occhi, disegnando strani cerchi con i piedi.
Ora fischietta mente io continuo ad annoiarlo con le descrizioni che,
imperterrito, annoto sul taccuino.
Ad un tratto mi pare di appiccicare la mia gomma americana sulla
fibbia a scatto della cinghietta del mio orologio d’acciaio; sì, sotto
al polso destro, intanto la mano appoggia la macchina fotografica
per terra. Nel movimento per scrivere sul notes, ingrandisco il
giro del braccio, come per scuotere la mano indolenzita dal troppo
lavoro, sfioro con il polso delicatamente il medaglione e lo tocco con
indifferenza e la gomma bacia l’oro. Mi gratto la barba corta e bionda e
nel movimento della mano noto il bagliore sotto alla cinghietta, vicino
al polsino abbondante del piumino. Tossendo, metto con freddezza
la mano davanti alla bocca, macchinalmente, con assoluta calma,
fingendo di trattenere del catarro che provvedo ad ingoiare mentre
in realtà ho infilato in bocca la moneta d’oro. Ora è proprio aderente
alla mia guancia destra mentre faccio finta di mirare un sesterzio di
Alessandro Severo dal grande flan, ma ho altro a cui pensare.
Recupero la macchina fotografica e scatto ancora foto allargando le
monete mentre le ripongo.
Ora il fazzoletto bianco lascia la tasca dei jeans Armani, si porta
sotto il naso ed accoglie il medaglione d’oro nel suo grembo. Torna
nella tasca e mi scuso con il custode dell’attacco di tosse. La mia
freddezza mi stupisce e penso all’adagio di Socrate “conosci te
stesso” e mi accorgo quanto stupida sia questa frase: non potremmo
mai conoscerci davvero fino in fondo.
“Ho quasi finito”, faccio sapere al custode, e alludo all’arrivo di
visitatori alla porta. E’ un gruppo di bambini francesi di 7/8 anni
dai visi dolci, educati e curiosi. Sono accompagnati da tre maestre
che illustrano le bellezze del museo. Il custode mi fa cenno di sì
con la testa, apprezzando la mia disponibilità a chiudere finalmente
la teca, prima che arrivino i bambini.
Il vetro ricompare trasparente ma invincibile come le sbarre
di una prigione. I morsetti si serrano e i lucchetti ringhiano
chiudendosi.
Ringrazio tossendo ancora e chinando il capo servizievole come
un gentleman giapponese.
Il cuore ora mi brucia irregolarmente attraverso la frotta dei
Francesini che si stanno sedendo per terra in cerchio, gli occhi
giovani e luminosissimi.
Risalgo le scale tastando il fazzoletto e cacciando nel marsupio
la macchina fotografica.
Il medaglione lo sento che c’è ed io sono un ladro, avverto
spifferare dietro di me da qualcuno che non vedo.
Raggiungo il guardaroba per prendere lo zaino, mentre una
calura mi secca le fauci e forse ancor di più gli occhi stanchi. Apro
il portafoglio per cercare il numero, lo consegno, riprendo lo zaino
e scendo le scale in preda ad un’ansia verticale che allarga le spalle
e mi spinge sotto terra con il badile. A destra vedo un cartellone
con la riproduzione gigantesca di un aureo di Augusto e la scritta
“il potere è di chi ha se stesso in suo potere”.
Tasto la tasca e mi spavento.
Perché l’ho preso?
Cosa ne faccio ora?
Le enormi finestre di palazzo Massimo mi squadrano rimproveranti,
un pezzo del museo se ne va con me e mi sento in colpa con i tesori
che rimangono e con tutti i visitatori che verranno perché non potranno
più ammirare il mirabolante medaglione di Teodorico. Mi pare di
sentire alle mie spalle una sirena, un allarme, un’auto della polizia
che mi rincorre, un visitatore che mi ha visto e vuole ricattarmi. Un
nugolo di storni si alza dai pini del piazzale dei Cinquecento, la statua
in bronzo di papa Giovanni Paolo II mi accoglie nell’ampio mantello
lanciandomi un anatema ma poi mi sorride bonaria. Mi dirigo verso
le bancarelle dove vedo un ritratto di Nietzsche, di profilo, fatto con il
filo di ferro nero e mi ricordo di quella frase “l’istinto è la forma più
intelligente di intelligenza”.
… e penso alle telecamere che mi hanno registrato ma che forse
non mi hanno visto.
Respiro profondamente e, per la prima volta, assaporo il gusto della
vittoria, ma il mio sguardo ora si deva ubriacare di altro, di normalità
e di smemoratezza.
Arrivo in piazza della Repubblica e prendo via Nazionale,
camminando distratto con il cuore nelle scarpe. La voglia di prendere
in mano il medaglione e di ammirarlo mi fa un cappio intorno alle
meningi e me le stringe guardandomi negli occhi come per sfidarmi.
Ora che scrivo queste righe inciampo in due ciglia che mi sono
cadute sul foglio dopo che mi sono strofinato l’occhio. Corrono ora
assieme alla sfera della biro e non vogliono lasciarla, come una moneta
desiderata da tempo quando mi si attacca allo sguardo.
Entro in piazza del Tritone come se fosse il salotto di nessuno. Le
auto roteano attorno alla piazza maleducate di fari e clacson.
La superba fontana è solo per i turisti e si capisce che il tritone
vorrebbe alzarsi e riposarsi un po’. E vorrei vedere dopo secoli con
le braccia alzate e il petto nudo al freddo, o forse ritiene invece che è
inutile splendere in quel grigiore pieno di uomini distratti, colmo di
sacelli tecnologici per essere ricopiato infinitamente sui telefonini di
persone sorridenti e infreddolite che vorrebbero scaldarsi con l’arte.
Con l’arte del Bernini che passeggiava qui attorno come un dio tra
il popolo. E io che tocco il mio medaglione che ha ottocento anni
più della scultura, sento di possedere la storia tra le dita. Magico
sarebbe lanciare sulla conchiglia, dove zampilla felice l’acqua, il
tesoro che ho in tasca, come segno di devozione per Roma e l’impero
tramontato.
Dopo aver girato attorno al capolavoro beniniano, miro le api
sullo stemma che sembrano ronzare ancora di nobiltà sullo scudo
Barberini e mi avvio alla ricerca di un bar.
Sono intontito dalle emozioni e comincio ad essere braccato dalla
paura, dopo la pausa d’arte che mi ha regalato la fontana. Sento
come se decine di uova, che mi contenevano una dentro l’altra per
proteggermi, si sbriciolassero ad una ad una per arrivare al centro
indifeso del mio cuore.
La mente mi rimanda un uomo che con il flessibile vuole radermi
la barba. Mi scontro con alcune persone che, trafelate, fanno parte
di un fiume che va all’incontrario. Me stesso urta le anime ignote
sussurrando loro cosa nascondo in tasca.
Oppure sono io che lo dico a bassa voce? Come facevo quando
ero al liceo per un voto alto preso nel compito di latino? Per averne
conferma dal suono e darmi forza?
Mi pare di udire la mia bocca che svela sottovoce il mio segreto.
Anzi mi sfida la coscienza per mettermi paura.
Entro nel bar Tritone, lungo l’omonimo Corso, e guardo i panini
ammassati dietro il vetro.
Devo stare attento a non soffiarmi il naso se ho ancora il
medaglione dentro al panno.
Panini stanchi dormono vogliosi uno sull’altro come corpi nudi
dopo un amplesso sfibrante.
Il cameriere rasato di fresco mi osserva sbattendo il filtro del caffè
sul maniglione sporco.
Uso il dialetto come per umiliarmi e far sapere da dove vengo. Il
cameriere mi guarda stupito ma non gli sfugge il mio anello d’oro
all’anulare sinistro.
Mentre prepara il panino che ho scelto, mi avvio nel bagno per
guardare il mio tesoro.
Il bagno è minuscolo e la puzza di urina è acre. Strano perché il
bar invece è pulitissimo.
Chiudo la porta e prendo il mio gioiello dalla tasca. Apro
il fazzoletto bianco mentre gli occhi hanno l’acquolina e
improvvisamente compaiono due euro con l’aquila tedesca sopra.
Non faccio nemmeno in tempo a riavermi che qualcuno bussa alla
porta. Caccio il fazzoletto in tasca, cerco nell’altra, guardo per terra
in mezzo alle gocce secche di piscio sulle piastrelle marroni lunghe
e strette.
“Occupato”, rispondo con le tonsille ritorte dall’arsura. La mia
mente intanto cade contro la memoria come una pianta segata che
sbatte contro una roccia piena di spigoli e l’acqua del mio cervello
si intorbidisce senza riflettere gli eventi. E’ un treno sterminato di
vagoni vuoti con i finestrini abbassati come fossero mutande. L’aria
vibra nelle narici dei sedili sopra le schiene di vacchetta blu, alzando
le gonne delle tende che spiritosamente fanno il verso a Marylin
Monroe.
La porta divide il mio segreto dalla curiosità del mondo. Non
è bene perdersi in questo modo, eppure l’avevo in mano il triplo
solido, eppure l’avevo rubato, eppure non c’era più.
La memoria ripercorre inciampando a passi all’indietro il film
delle ore precedenti, quando D. P. scese dal treno e s’addentrava in
palazzo Massimo.
Non poteva essere frutto della sua fantasia il furto di quel
preziosissimo medaglione.
Lavo le mani con il sapone liquido che sembra una schiuma da
barba, come quella che il cervello sta sintetizzando mentre cerca di
realizzare quanto è accaduto.
La porta trema: “Ho finito”.
La faccio scorrere dentro il muro come la mia paura nelle secche
della ragione abbandonata.
Scompaio al tavolino divorando macchinalmente il panino,
annaffiandolo con la coca gasata che mi ustiona le tonsille e mi
frigge il palato anestetizzandolo. Potessi almeno spruzzarla sui miei
pensieri.