Memorie di un nummomane, capitolo 8

Prosegue il racconto in prima persona di un appassionato di monete, scritto da un appassionato di monete.

Dopo il settimo capitolo, continua la pubblicazione con cadenza settimanale del libro di Demian Planitzer Memorie di un nummomane. Ovvero: tramonto di un collezionista di monete antiche (pp. 128, Albo Versorio edizioni, Milano 2017, € 9,50).

Capitolo ottavo. Risultati

Di come una moneta falsa possa trasportare più ricordi di una moneta buona.

“I pettorali lisci luccicavano di
gioventù e di sudore, le adolescenti
muscolature contratte e i nervi tesi
disegnavano ragnatele d’acciaio
sotto la pelle vellutata dalla virilità
appena sbocciata”.

Solo ieri scrivevo queste righe, solamente ieri desideravo quella
moneta e già oggi che è mia non la guardo più, come tutte le altre
che possiedo, voglio sempre quella che non ho, che mi manca, tuttavia
quando l’ho in mio potere diventa meno affascinante perché non più
irraggiungibile, e aspetta disperata un mio sguardo innamorato. Invece
gli occhi anelano ad altro. Come quando si fa l’amore e poi ci si gira
dall’altra parte per dormire. Solo così si può amare: possedendo e
trascurando appena un attimo dopo? Che cosa credeva questo luigi
d’oro? Di farmi suo schiavo per sempre? Io sono sempre della prossima!
Anzi, devo aggiungere che è eccitante snobbarle, lasciarle nelle
scatoline, preferire ora l’una ora l’altra perché sento di ingelosirle
come tante cavalle che se potessero si morsicherebbero a vicenda per
rubarmi una carezza in più. Così i ritratti se ne stanno mesti, gli occhi
lucidi, le guance malnutrite che si asciugano sempre più man mano che
passano i giorni privi dei miei sguardi affettuosi. Le trascuro? Sì, così
mi amano di più.
Ieri ho messo un darico, per punizione, tutta la notte fuori sul
davanzale della finestra, a meno 5 gradi. Così la mattina era gelato,
quasi moribondo. Desiderava il caldo del mio studiolo, ma l’ho lasciato
là a soffrire finché il sole non l’ha baciato e allora, splendente, l’ho
curato con le mie mani calde. Dovevate vederlo come brillava radioso
di luce e felicità. Erano secoli che non pativa il gelo l’arciere appiedato,
o meglio il re. Ma se mi fa arrabbiare, lo lascio fuori per una settimana
intera, finché non si busca un accidente. Se mi fa adirare ancora,
l’avvolgo in un panno e lo esilio dal mio studio. Non vedrà per un po’
gli altri colleghi. Sarei disposto a cederlo questo darico, alle volte, così
allora sì che imparerebbe…
Duemila anni, duemila inverni sulle spalle con il rischio di morire
per colpa della mia mano dopo essere sopravvissuto a tutto.
Eppure ora lo osservo con la mia vecchia lente sferica. Miro questa
moneta ingigantita e la sento respirare di rabbia.
Va bene, scusa.
L’appoggio sulle labbra e cerco di farmi perdonare, la ripongo nel
feltro caldo dopo averla accolta in un panno bianco morbidissimo.
Richiudo la scatola e mi verso ancora della sambuca nel bicchierino.
Chiudo l’edizione del Tresor di Jacopo Strada, un libro del Cinquecento
che mi è costato tempo fa un’occhio, lo infilo spingendolo tra le altre
opere di bibliofilìa numismatica e sento che urta un dischetto di metallo
che striscia sul ripiano di vetro, emettendo uno stridìo di dolore.
Tolgo il libro e con curiosità allungo le dita per prenderlo: è una lira
maltese.
E’ vero, non ricordo bene, si perde lontano nel tempo questo
episodio, come un relitto in mezzo al mare che da riva pare piccolo
ed insignificante e anche la sua forma ci sfugge in mezzo ai vapori del
cielo. Datemi il tempo di metterlo a fuoco…
Io e la mia fidanzata passeggiavamo (mano nella mano? Penso di
sì) per i saliscendi di Valletta e rimanevo stupito, era il primo giorno,
proprio quello del mio arrivo sull’isola, che vi fossero così tante feste
religiose in ogni rione della città. Dappertutto Madonne su lussuosi
baldacchini di legno dipinti di rosso e d’oro trasportati a braccia
da giovani che, nell’anno, sarebbero diventati maggiorenni. Gli
adolescenti erano a petto nudo ed indossavano delle strane bermuda
orientaleggianti verdi smeraldo con inserti in oro che terminavano in
uno sbuffo sotto le ginocchia. Le stanghe di legno nero premevano
forte sulle quattro giovani spalle nude brunite e splendenti, mentre le
mani affusolate impugnavano sicure i bastoni per dare equilibrio agli
alti catafalchi, a quegli affascinanti altari viaggianti che ondeggiavano
sulla folla come velieri sul mare. I pettorali lisci e torniti luccicavano
di gioventù e di sudore, le adolescenti muscolature contratte e i nervi
tesi disegnavano ragnatele d’acciaio sotto la pelle vellutata dalla virilità
appena sbocciata. Ai balconi girandole di carta variopinta, bambini con
le trombette, nonni seduti con le pipe fumanti: tutti a guardare di sotto.
Ogni cosa dava l’impressione come di un strano miscuglio tra una
sfilata di carnevale ed una colorata processione religiosa. I banchetti
che vendevano i donat (specie di krapfen con la panna montata) erano
affollati e innumerevoli fauci inghiottivano gli zuccheri o i pisellini
duri dei pastizzi (sorta di pasticcini salati).
Acquistai per me e per lei due donat freschi e una lattina di cocacola.
Il resto era una lira sterlina maltese che infilai in tasca per dedicarmi a
leccare la panna che si associava bene alla felicità ed al tripudio della
festa.
La processione proseguiva in salita e i quattro ragazzi longilinei,
incatenati agli angoli del baldacchino, sudavano sotto i 40 gradi di
agosto che alle quattro del pomeriggio intontivano anche a non far
niente. Le scarpe da ginnastica bianche, senza calze, riflettevano
la luminosità del sole accecando gli occhi e le pelurie dei polpacci
vibranti dal peso brillavano di fresco sudore appena sgorgato. La
nostra Madonna traballava, scricchiolava il catafalco vecchio di secoli
e ogni tanto la corona rivestita d’oro e di pietre, troppo grosse per
essere davvero preziose, sussultava brontolando come se dicesse “no,
non ce la facciamo ad arrivare in chiesa quest’anno”, mentre la statua
guardava con tristezza nella folla per scovare il viso di qualche anziano
che l’aveva portata più di cinquant’anni prima.
Tra le mani della Madonna immacolata si vedeva un lungo rosario
composto da grosse palline di legno nero e duro che vibravano. Era
ancorato con un filo di ferro invisibile alla base del baldacchino per
evitare che ciondolasse troppo e si staccasse. Ogni anno c’era sempre
qualche bambino che lo guardava stupito, desideroso di sfilare via di
nascosto qualche grossa pallina per giocarvi poi sulla sabbia in spiaggia
nel pomeriggio.
Ora c’era il cambio dei portatori, ecco che altri quattro giovani aitanti,
a torso nudo e sempre in bermuda verdi, si avvicinavano determinati
per sostituire i compagni. Questi si allontanavano rimanendo però nei
pressi per dare aiuto in caso di bisogno, ma intanto facevano roteare
vigorosamente le spalle per riprendere la funzionalità degli arti
mostrando le ascelle con la timida peluria africana appena spuntata.
La Madonna proseguiva più decisa ora, pareva aver smesso di dire di
no col capo e sembrava proprio annuire sotto la spinta fresca dei nuovi
adolescenti dalla pelle araba leggermente brunita. Recuperano terreno
e la Madonna convinzione, in tal modo la processione si allunga e per
questo sono di meno quelli che chiacchierano stupidamente mentre gli
altri recitano le avemaria.
Intanto mi avvicino ad un banchetto perché avrei voglia di un altro
donat, ricevo il dolce nel tovagliolino bianco e pago automaticamente
con la lira sterlina che ho in tasca da prima. Il Maltese dagli occhi
neri passa la calamita vicino alla moneta per vedere se è buona: non
si attacca. No. Niente. Mi ridà il disco che non è di ferro scrutandomi
in viso come se volessi imbrogliarlo. Siccome avevo solo quella,
restituisco di malavoglia il donat e faccio capire che non lo sapevo che
fosse falsa.
Amareggiato, perché ero stato imbrogliato da quello del primo
banchetto, vorrei andare là per protestare ma intanto la mia ragazza si
sta allontanando, e poi mi dice che nessuno si sarebbe ripreso la mia
sterlina falsa: tutti qui controllano se si attacca al magnete. E infatti tutti
i tentativi di rifilarla durante l’intera vacanza risultarono vani.
Eccola qui sulla mia scaffalatura di vetro questa moneta falsa
per i Maltesi, ma per i numismatici italiani penso di no, non se ne
accorgerebbero. Mi piace ora osservarla e pensare che non è buona.
Che il coniatore avesse deciso di farla falsa appunto per ridere di tutti
quelli che avrebbe imbrogliato? Me compreso? Eppure questa lira
sterlina maltese non sarebbe giunta nella mia vetrinetta se fosse stata
buona… sarebbe stata barattata per quel donat mancato quel giorno là
di tanti anni fa e non mi sarei ricordato proprio di nulla, oggi, qui con
voi, né della Madonna di legno, né dei ragazzi con le bermuda verdi,
né delle girandole variopinte ai balconi.
Mi butto a letto così, pensando al passato che esiste solo nei libri e
nelle nostre menti, forse inutilmente, eppure non riesco a liberarmene,
sono ossessionato dal piacere di resuscitarlo, come dalle opere dei
Nobel per la letteratura che custodisco geloso nel ripiano infinito sotto
la travatura a nord del mio studio.
Domani dovrò rinunciare alle miei monete: vado a Roma a Palazzo
Massimo, dove è contenuta la collezione di Vittorio Emanule III e
quella di Francesco Gnecchi.
Venite con me?