NAPOLI 1497: FEDERICO I E I CARLINI
DELLA “MAGNANIMITÀ ARAGONESE”

(di Raffaele Iula) | La zecca partenopea, così come la città di Napoli, capitale dell’omonimo Regno, visse uno dei periodi più floridi ed intensi durante la dominazione, in Italia Meridionale, della Casa di Aragona. Grazie alla dinastia iberica, infatti, Napoli scopre un’autonomia politica ed economica che portò, nella maggior parte dei casi, all’accrescimento della ricchezza del Reame. Sul finire del XV secolo, però, la potenza aragonese fu messa in discussione principalmente da due fattori: le pretese politiche dei sovrani francesi Carlo VIII e Luigi XII e le rivolte baronali interne che avevano come fine ultimo il rovesciamento del re per sancire l’autonomia amministrativa, e in alcuni casi anche territoriale, della nobiltà locale. Il tracollo definitivo della Casa aragonese napoletana si ebbe sotto il regno di Federico d’Aragona, convenzionalmente conosciuto con il numerale I, il quale governò dal 1496 al 1501.

La situazione che egli dovette fronteggiare durante il suo breve regno fu caotica, ma storicamente molto interessante: infatti, quando Federico salì al trono dopo la morte del nipote Ferdinando II (1495-1496), figlio di Alfonso II (1494-1495), che era a sua volta fratello del Nostro, ereditò dai suoi predecessori uno Stato in piena crisi politica. Il pericolo maggiore proveniva dalle fila della nobiltà locale: molte di queste famiglie erano rimaste fedeli agli Angioini e approfittavano di ogni pretesto per creare problemi alla dinastia aragonese.

Così, nel 1485 sotto il regno del padre Ferdinando I (1458–1494), i baroni, principalmente lucani e pugliesi, si unirono per combattere contro la monarchia napoletana. Con alterne vicende, Ferdinando riuscì in qualche modo ad avere la meglio sui ribelli e riportò l’ordine nel suo Regno, ma la tregua fu breve se nel 1495, con l’ascesa di Ferdinando II, Napoli fu conquistata dai Francesi di Carlo VIII. Il rovesciamento della dinastia aragonese a favore della seppur momentanea dominazione francese fu salutato con favore anche da quella parte della nobiltà che aveva partecipato attivamente alle rivolte baronali della seconda metà del secolo.

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Ducato in oro per Napoli di Federico I d’Aragona (source: NAC Numismatica Ars Classica)


Sotto Ferdinando I, i baroni ribelli erano capeggiati dal principe di Salerno, Antonello Sanseverino (1458-1499), ammiraglio del Regno di Napoli a partire dal 1477. Suo padre Roberto aveva dimostrato in più occasioni la fedeltà del suo casato alla Corona, ma il figlio non rinnovò gli accordi presi dal genitore e fu scelto come guida dei rivoltosi anche grazie alle sue incombenze feudali: non solo egli era stato nominato ammiraglio, avendo così accesso ad una delle cariche più importanti del Regno aragonese, ma i suoi feudi erano così estesi che la sua famiglia controllava un territorio talmente vasto che arrivava fino alle porte di Napoli, mettendo in serio pericolo il potere degli Aragona nella capitale stessa. Federico, in quanto figlio del re Ferdinando I, fu inviato dal padre a parlamentare con Antonello e i suoi seguaci durante la lotta che egli stava combattendo per il trono di Napoli con Giovanni II d’Angiò, ma fu catturato e tenuto prigioniero a Salerno.

I baroni, infatti, non nascondevano, da un lato, le loro simpatie per i Francesi e, dall’altro, l’astio che nutrivano per gli Spagnoli. Il giovane principe, non riuscendo a portare a termine la sua missione diplomatica, fu liberato grazie ad un’incursione della flotta napoletana nel 1485, allorquando nuovi tumulti stavano per abbattersi sul tartassato Regno aragonese.

Grazie alla discesa di Carlo VIII di Francia a Napoli, infatti, i baroni ribelli trovarono un appoggio politico e militare nello straniero invasore: guarnigioni di soldati francesi furono messi al comando dei nobili rivoltosi, tra cui spiccava Antonello Sanseverino. Questi, che aveva il comando del presidio di Castel Nuovo, nel novembre del 1496 fece ritirare le truppe francesi lì stanziate a guardia della fortezza e le trasferì a Salerno. Mentre l’esercito aragonese di Federico I riconquistava il terreno perduto, il Sanseverino, ben conscio del tracollo francese e della causa dei rivoltosi, riconsegnò le truppe al comandante francese il duca di Monpensier, trincerandosi nel più sicuro castello di Agropoli. In una situazione così complessa, il re Federico, stretto tra le truppe francesi in ritirata e i nobili ancora a lui ostili, tentò con tutti i mezzi di far ritornare sui propri passi i Baroni traditori. In particolare, il sovrano era consapevole che se il capo dei rivoltosi, Antonello Sanseverino, si fosse arreso alla causa regia, allora il movimento a lui ostile si sarebbe dissolto, o comunque indebolito, in mancanza di un comandante valente com’era il principe di Salerno.

I ricordi dei servigi prestati da suo padre Roberto alla Corona aragonese erano ancora molto vivi a Napoli e nella mente dei re, tant’è che il valore e l’importanza della casata Sanseverino erano ancora ben apprezzate dall’entourage reale. Per questi motivi, Federico tentò, con delegazioni e tentativi di persuasione, di riportare dalla sua parte il Sanseverino. Non si sa quali mezzi di preciso adoperò il re per convincere il principe a ritornare sulla retta via, ma non è escluso che gli fu offerto il perdono e l’annullamento di tutte le condanne che aveva meritato per il suo tradimento.

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Sestino in rame per Napoli di Federico I d’Aragona (source: NAC Numismatica Ars Classica)


Gli sforzi del re andarono però tutti perduti perché non solo il Principe Sanseverino respinse tutte le offerte reali, ma era deciso più che mai, soprattutto dopo la sconfitta francese di Carlo VIII, a proseguire il suo atto di rivalsa verso la Corona d’Aragona. Inoltre, il Principe non si fidava delle profferte reali, poiché aveva il sospetto che, dietro le cortesi proposte di Federico, si nascondevano, in realtà, ben altre intensioni per la sua sorte futura. Egli, infatti, non abbandonò mai i nobili compagni di congiura, lasciando anche il castello di Agropoli e rifugiandosi nel più munito castello di Teggiano da dove continuò a capeggiare la rivolta baronale.Federico non poteva tollerare oltre il comportamento del Sanseverino: da parte sua c’erano state offerte di pace in cambio della cessazione delle ostilità, ma il Principe le aveva rigettate tutte con diffidenza. Al re non restava altro da fare che riportare l’ordine nei suoi territori con la forza. Riunito un esercito di circa ventimila uomini, Federico d’Aragona sottomise prima Salerno, città in cui il Sanseverino aveva basato tutto il suo potere nobiliare, per poi spostarsi a Teggiano, mettendo sotto assedio il castello del ribelle che, all’epoca, era considerato inespugnabile. Antonello Sanseverino tenne la difesa del castello per più di due mesi, ma alla fine dovette scendere a patti con il sovrano aragonese, riconoscendone la superiorità e abbandonando ogni velleità di rivalsa.

Federico non fu benigno con lo sconfitto: Antonello fu depauperato di titoli e beni, i quali furono incamerati dalla Corona aragonese di Napoli. Il principe decaduto fu costretto a rifugiarsi a Senigallia, nei pressi di Ancona, dove la moglie, Costanza di Montefeltro, figlia di Federico duca di Urbino, aveva dei feudi su cui la coppia poteva contare. La casata dei Sanseverino fu reintegrata nella nobiltà del Regno di Napoli solo grazie all’impegno del figlio di Antonello, Roberto II (1485-1509), che riacquistò tutto ciò che era stato confiscato al padre, compreso il Principato di Salerno.

L’attività di persuasione di Federico I d’Aragona fu serrata ed intensa: per la sopravvivenza della monarchia aragonese a Napoli era di vitale importanza riconquistare la fiducia di Antonello Sanseverino. Quest’ultimo, infatti, era stato scelto come capo dai rivoltosi per gli stessi motivi per cui Federico lo considerava la minaccia più grave al suo potere: con i suoi possedimenti estesi fino alle porte di Napoli, essendo egli padrone del più vasto territorio feudale dell’Italia Meridionale, il Sanseverino poteva disporre di una quantità di risorse enorme per finanziare la causa ribelle.

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Ecco il celebre carlino in argento coniato a Napoli nel 1497 a nome di Federico I d’Aragona e al tipo del libro in fiamme (source: NAC Numismatica Ars Classica)


Inoltre, poteva vantare titoli che lo rendevano il primo nobile del Regno per importanza, tra cui spiccava quello di grande ammiraglio del Regno, tenuto ininterrottamente dal 1477 alla sua morte, nel 1499. Si comprende, allora, come per re Federico fosse necessario recuperare l’alleanza e l’amicizia del principe ribelle. Alcune tracce di quest’impegno di recupero regio sono ravvisabili, a parere di chi scrive, nell’iconografia di una particolare moneta napoletana dal valore di un carlino, emessa a nome di Federico I d’Aragona nel 1497, di cui qui di seguito forniamo una descrizione esemplificativa. Al dritto (globetto) FEDERICVS : DEI : G : REX : SI : HIRV (globetto); busto coronato e corazzato volto a destra. Dietro, lettera T. Al rovescio + RECEDANT (globetto) VETERA; libro avvolto dalle fiamme. Il numero di queste ultime può variare notevolmente da un conio all’altro.

La sigla T è riconducibile al maestro della zecca di Napoli Gian Carlo Tramontano. Figlio di Ottavio e di Fiola Penta, Gian Carlo ricoprì l’incarico dal 1488 al 1514. Tra le tappe più importanti della sua carriera si ricordano: l’8 giugno 1495 ricoprì la carica di eletto del popolo di Napoli; nel 1497 fu insignito del titolo di conte di Matera, comprando la città dal re Federico I d’Aragona per 25.000 ducati. Con una lettera datata 18 marzo 1501, Federico I gli concedeva in perpetuo l’incarico di maestro di zecca, privilegio poi confermato dal successore Ferdinando il Cattolico con lettera del 14 settembre 1502. Il Tramontano morì assassinato il 29 dicembre 1514, mentre si recava in chiesa, a Matera. Riferimenti bibliografici: Pannuti – Riccio 1984, p. 74, n. 6; “CNI XIX”, p. 249, n. 46; “MEC 14”, p. 740, n° 1062 “et similia”; D’Andrea – Andreani 2009, p. 300, n. 6; Vall-Llosera 2016, p. 431, n. 322.

Rivelatore è il motto che accompagna l’iconografia di rovescio, su cui pure è necessario spendere qualche parola per comprendere come si riferisca al difficile contesto storico che vide contrapposti Federico I e il principe di Salerno, Antonello Sanseverino. La legenda recita RECEDANT VETERA che si può tradurre come “Si dileguino le vecchie cose”. Si tratta di un versetto tratto dalla Bibbia, in particolare da dal “Primo libro dei re” (2, 3). Era cosa comune per il periodo aragonese trovare delle frasi particolarmente calzanti dai testi sacri e adattarle ai conii delle monete napoletane.

Già il motto così reso si mostra più che comprensibile: il re vorrebbe accantonare il passato (le “vecchie cose”) e le colpe dei ribelli, in particolare del Sanseverino loro capo, ed andare oltre, perdonando i loro misfatti e la loro infedeltà. Questo esplicito significato dalla legenda ci consente di passare direttamente all’iconografia del rovescio, ovvero il libro che brucia tra le fiamme. Alcuni vi hanno visto un libro contabile per via del particolare tipo di chiusura; dunque il re intendeva con questo gesto cancellare i debiti che i nobili avevano contratto nei confronti della Corona. Ma la stragrande maggioranza dei libri, nel corso del XV secolo, avevano quasi tutti lo stesso tipo di legatura, con la chiusura assicurata da lacci e fibbie. Più probabile, invece, che il libro rappresentato mentre ancora brucia alluda alla cancellazione delle colpe dei baroni ribelli: sembra infatti che i sovrani aragonesi avessero segnato i nomi di coloro i quali si erano macchiati di tradimento nei loro confronti. Come segno di riconciliazione, per far ritornare la pace nel suo Regno, sembra che Federico abbia voluto adoperare questa particolare iconografia per dimostrare le sue buone intenzioni, facendo riferimento all’annullamento – e non all’eliminazione fisica del registro dei colpevoli – dei nomi e dei torti commessi dal Sanseverino e dai suoi seguaci. Proprio l’allusività del messaggio e la mancata eliminazione, in senso più pragmatico, del registro aragonese avrebbe indotto il principe di Salerno a non fidarsi delle intenzioni del suo re.

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Cavallo in rame per Napoli di Federico I d’Aragona (source: NAC Numismatica Ars Classica)


L’azione di Federico I non sembra essere del tutto nuova: se scaviamo a ritroso nella storia, scopriamo che qualcosa di simile fu già effettuato durante l’Impero Romano. Ad esempio, l’imperatore Caligola, appena asceso al trono nel 37 d.C., per rassicurare i nobili ed i senatori che avevano avuto un ruolo attivo nell’eliminazione, sotto Tiberio, di sua madre Agrippina e dei suoi fratelli, Nerone e Druso Cesari, fece portare nel Foro tutti gli atti che servivano per il processo e, con una grande cerimonia pubblica di matrice propagandistica, li fece bruciare tutti. Si scoprì, però, in seguito che in realtà il giovane Caligola ne aveva conservato delle copie da gestire nel modo opportuno al momento più propizio. La diffidenza del Sanseverino era dunque più che motivata, ma di questo particolare periodo storico e delle azioni di ricongiungimento tra sovrano e nobiltà locale resta, come testimonianza storica, la particolare raffigurazione di questo carlino napoletano.

Dopo la disastrosa disfatta di Carlo VIII e la sua morte, registrata nel 1498, fu scelto come nuovo re di Francia Luigi XII Valois-Orléans, unico esponente del ramo cadetto dei Valois ad essere riconosciuto come sovrano. Luigi aveva seguito in gioventù il suo predecessore durante la discesa in Italia per la conquista del Regno di Napoli, dopo essersi brevemente opposto al suo potere. In tal guisa, anch’egli dunque aspirava a riuscire laddove re Carlo aveva fallito: le pretese francesi sulla Napoli aragonese non erano ancora del tutto placate. Così, con il pretesto di condurre il Ducato di Milano sotto l’egida francese, Luigi invase l’Italia nel 1499, puntando, dopo un breve soggiorno al Settentrione, su Napoli e sull’omonimo Regno. Il dominio di Federico I e della Casa d’Aragona sul Mezzogiorno stava però per tramontare definitivamente: grazie al tradimento dei re di Spagna, che, per conquistare Napoli, si allearono in gran segreto coi Francesi per poi tradire anche questi ultimi, Federico fu preso tra due fuochi e costretto alla resa. L’Aragonese, quindi, consegnò il trono napoletano a Luigi XII che, in cambio, gli concesse salva la vita e gli donò la contea del Maine, in Francia, con una pensione vitalizia.

Federico I, ultimo esponente degli Aragonesi di Napoli, si ritirò definitivamente in Francia: qui finì i suoi giorni a Tours, morendo il 9 novembre 1504, avendo però assistito al voltafaccia di Ferdinando il Cattolico, al quale andava ora il Regno di Napoli con l’istituzione di un Vicereame dipendente dalla Spagna, e alla sconfitta di Luigi XII sul campo di battaglia nel 1503. Si chiudeva in questo modo uno dei periodi più floridi per il Meridione d’Italia, un tempo in cui Napoli aveva goduto di enormi benefici dal fatto che il sovrano, pur appartenendo ad un ramo collaterale di una dinastia iberica, e dunque straniera, risiedeva stabilmente nella capitale del territorio che egli sentiva proprio e che governava di persona con tutte le cure possibili.

 

Bibliografia essenziale

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