Memorie di un nummomane, capitolo 3

Prosegue il racconto in prima persona di un appassionato di monete, scritto da un appassionato di monete.

Dopo il secondo capitolo, continua la pubblicazione con cadenza settimanale del libro di Demian Planitzer Memorie di un nummomane. Ovvero: tramonto di un collezionista di monete antiche (pp. 128, Albo Versorio edizioni, Milano 2017, € 9,50).

Capitolo terzo. Infilade

Di come le monete possano consapevolmente aggiungere godimento al piacere inconscio.
“… Guardavo una bottiglia che
nuotava in acqua sussultando diritta,
spariva e ricompariva come la fiducia
in me stesso, la sera, dopo una giornata
di legno nella falegnameria della vita”.

Quando miro le mie Cento lire del 1842, che ora valgono circa
duemila euro perché considerate R2, cioè molto rare dai listini di
monete, penso prima al Re, al Raid e poi alle vacanze a Malta, alla
sabbia infuocata e al mare vaporoso d’azzurro. Ma anche al guscio
dell’uovo che vola dalla finestra, alla barba impiastricciata di tuorlo e
ai Dire Straits che per festeggiare mi hanno sottolineato che “money
for nothing”. Ma anche quando sento i Dire Straits che suonano
“money for nothing”, penso alle mie Cento lire in oro del 1842, che
solo 864 collezionisti possiedono (o forse meno).
Poi non vi dico i musi lunghi della mia compagna che dopo quattro
settimane d’inferno ho deciso di non rinnovare in quel ruolo, una volta
giunto in Italia però. Si era messa ad annotare su un taccuino addirittura
le mie spese che avrei dovuto rifonderle, dato che ero rimasto quasi
a secco per quell’irresistibile amplesso culturale. Ecco perché non
ricordo più le giornate maltesi trascorse a mangiare solamente panini
imburrati mentre le mie forze scemavano con i chili che perdevo a
vista d’occhio.
Eppure quando guardo il mio magico disco d’oro, la beatitudine
piena mi invade e il sole di Malta mi abbaglia piacevolmente gli occhi.
Sento le azzurre lontananze dell’acqua che mi accompagnano negli
abissi, la sabbia che vetrifica i miei piedi e gli adolescenti maltesi, dalla
pelle brunita, che si tuffano dalle scogliere a trenta metri d’altezza per
dimostrare che sono già uomini.
S’impara più da una moneta che da una donna, è vero. Però l’aureo
di Augusto ce l’ho ancora negli occhi, con lo sfregio sulla guancia,
quello a V orizzontale… accidenti, chissà dove sarà ora.
Ma perché, ditemi, sentirsi in colpa come se si avesse combinato
chissà quale misfatto, quando invece si dovrebbe solamente gioire?
Perché parlare sottovoce stando calmi per farsi perdonare quel potente
capriccio che ho pur pagato con i soldi miei? Perché quel gioco
difensivo ed indietreggiante ed arrendevole subito dopo l’acquisto
per non scatenare e vedere in faccia la scenata che sta covando tutto
attorno, in un’aria che si mette i colori roteanti di un turbine?
Ma cosa voleva quella là? Che rinunciassi a un pezzo di mondo per
un bacio e qualcosa di più, la sera?
Intanto avevo la mia moneta sotto le coperte della mia mente ma
dovevo pagare un dazio a qualcuno che mi stava accanto, e tutto
questo per giustificare la mia felicità: ve ne rendete conto?
Il giorno dopo ritornai da solo dal Raid. Avevo deciso di
comperarmi un’altra moneta con un piccolo prestito che ero riuscito
a farmi concedere dalle zie della mia fidanzata, impegnando anche
la mia grossa collana d’oro che la stessa mi aveva regalato per il mio
compleanno…
Poca roba, 150 euro. Ma qualcosa ne sarebbe uscito. All’epoca
non disponevo di uno stipendio mensile e le risorse erano filiformi.
Il Raid fu felice di vedermi, ma non fu molto cordiale, forse per
l’atavica ritrosia anglosassone nei confronti degli Italiani. Non mi
piaceva quella barba rossiccia che pareva ancora unta di uovo, non mi
fidavo di quegli occhi sgranati che rubavano negli angoli. Tutta la sua
persona mi trasmetteva un non so che di vigliacco, sleale, infingardo,
se non lo si è ancora capito. E poi non volevo che toccasse con mano
la mia debolezza. Simulavo di avere alte disponibilità economiche
per ritornare in quel buco di cameretta. Intanto il cielo blu brulicava
d’estate facendo suonare i grilli e le cicale nei boschetti esotici che
occhieggiavano di linfa dai giardini roventi.
Oggi non poteva e neppure domani. Si doveva rinviare alla
settimana prossima così tornai da lei rabbuiato, triste per il mancato
acquisto, ma quando ripresi in mano le Cento lire in oro di Carlo
Alberto di Savoia del 1842, 864 esemplari coniati a Torino, con tutti
i suoi 32,25 grammi d’oro, mi scordai della seconda moneta, dei 150
euro, del broncio della mia fidanzata, delle occhiate delle zie perché
passeggiavo con la mente lungo la costa rocciosa del grande Harbour
di Valletta guardando felice dal piccolo poggiolo stile impero una
strada, morbidamente trafficata, poi un lungo parco rettangolare dagli
alberi verdi scuro e quindi il blu della baia profondissima dove gli
squali rincorrevano gli scarichi delle navi…
Tra un po’ avrei riportato a casa il Re, in Italia, magari anche a spasso
per Custoza o a Novara, luoghi delle sue ultime nefaste battaglie, per
farlo ricordare un po’ dopo tanto tempo… Cosa avrebbero mai capito
la mia fidanzata e le sue tre vecchie zie delle emozioni che trasudano
dalle monete quando si accorgono che c’è qualcuno che è attratto da
loro?
Da quel momento capii che non potevo tradirla quella moneta,
almeno per tutto il soggiorno. Unica spesa che si poteva affrontare era
una scatolina degna di lei. Nessun altro acquisto numismatico. Non
avrebbe retto alla gelosia, la poveretta. Ecco che allora quando confidai
che avevo altri 200 euro e che, pertanto, non avevo, scioccamente dato
fondo a tutte le mie risorse (si dice cosi?), la mia fidanzata si distese
e mi regalò un sorriso ancor più convincente quando ci fermammo a
mangiare dei dolci lungo la via X…
Era tornato il sereno e la mia moneta era salva. Trovai una scatola
rivestita di madreperla con interno in velluto rosso, non proprio
per monete, ma abbastanza lussuosa per accontentare il Re che mi
confidava la sua vita nella biblioteca nazionale di Valletta, dove ci
recavamo la mattina a studiare. Ammiravo i capelli ricci magicamente
lavorati dal Ferraris e il mento pronunciato e paffuto, lo stemma
sabaudo era semplice, se vogliamo, rispetto alle monete austriache con
l’aquila bicipite e tutto il resto, ma appunto perché sobrio era ancor più
elegante. Sentivo di aver fatto bene a comperare quella gioia e di avermi
fatto bene. Pativo di dover andare in spiaggia abbandonandola a casa
perché temevo che qualcuno me la rubasse, non le zie, ovviamente, e
non appena tornavo, prima di bermi un bicchiere fresco di sciroppo al
limone, andavo a salutare la mia grossa moneta che mi aspettava con
ansia.
“Sei una R2”, le dicevo “e in Italia costeresti mille euro, ma per me,
bella, vali di più!”.
Inutile dire che questo riferimento all’alto valore rispetto al prezzo
pagato non era servito un bel nulla con la mia fidanzata, perché sapeva
benissimo che appunto perciò non l’avrei mai venduta.
E invece l’avrei venduta fra qualche settimana per pagare la ringhiera
a difesa della scala, su, alla casa che abbiamo ristrutturato. Erano
quindici anni che la contemplavo e ora chissà dove sarà andata a finire.
La virgola delle basette che si muoveva a sinistra ce l’ho ancora negli
occhi, così come la scritta Ferraris, l’incisore sabaudo. E il rilievo del
collo alto come quello della mandibola e del mento: magici.
Solo la legenda mi pareva troppo piccola rispetto al resto, cioè con
un carattere non commisurato alle dimensioni della moneta, chissà per
quale motivo. Cosa che non accadeva per le 80 lire di Vittorio Emanuele
I, le Cento lire di Vittorio Emanuele II e III… che portavano le legende
altezzose ed urlanti.
All’epoca però la tua ragazza era fantasiosa, te lo eri scordato bello
mio? Non vedi ancora quando quella sera, in una casa vuota di genitori,
dopo che ebbe cucinato per un tale spaghetti allo scoglio e gamberi
fritti, salì in camera, quella con la tapparella rotta e per questo sempre
socchiusa… e divertita aveva appoggiato i cinque lucenti napoleoni
d’oro sulla rada peluria del petto del ragazzo che, in attesa, stava sdraiato
nudo sul letto freddo? E poi si era messa a baciare e ribaciare il metallo
luminoso e la pelle levigata, bianchissima, mentre un formicolio fine ti
invadeva sferico fino nei penetrali della tua coscienza? Te lo eri scordato
che quel ragazzo eri tu?
E quelle monete dove erano sparite? Nel solco tra i due materassi
del letto? Le avevi recuperate solo dopo il turbinio dell’appagamento?
E perché non vuoi dirlo nemmeno adesso che quei cinque napoleoni
d’oro ti erano stati regalati però dalla fidanzata di prima, quella francese
di Loches? Ti vergogni ancora di averli usati per giocare eroticamente
con la fidanzata di dopo? Ma sai quante ne hanno viste di avventure quei
cinque dischetti?
E poi, quei 100 franchi da venti non erano stati il regalo del tuo
compleanno che la Francese ti aveva donato dopo la vacanza a Mont
Saint Michel, nella ventosa Normandia? Non riportavano i cartoncini
bianchi sotto il fondo delle scatoline la data del… e la dicitura
“compleanno”?
I suoi capelli mossi, miele chiaro, ricordavano ancora quelle monete
e i bagliori che emanavano, sì, proprio. La sua pronuncia italiana
con la “r” che grattava il palato, il golfino verde con i bottoni che
imitavano delle strane monete arabe e la pelle chiara che si consumava
al freddo nebbioso di Verona, quando gli occhi lacrimavano per l’aria
pungente che rimbalzava contro le pietre dell’Arena e i guanti neri,
in lana, mozzati, che nascondevano solo in parte le mani infreddolite
in mezzo a due occhi verdi che sembravano la patina smeraldo dei
sesterzi romani.
Quel gioco te lo aveva insegnato lei, dimmi la verità. E tu,
vigliaccamente, l’avevi imposto senza problemi alla tua nuova
fiamma. Forse perché per dimenticare un amore non basta cancellarlo
ma bisogna sovrascrivere, più e più volte, sui ricordi che la mente ha
stivato con cura da sola in completa autonomia? Se solo i 5 napoleoni
avessero potuto parlare. Ma non era stata l’ultima.
Sì. Hai ragione, ma ti diverte ricordarmelo? Ci provi gusto? I
napoleoni d’oro sono miei, o no? 32,25 grammi d’oro, una lussuria
per la vista!
Ma tu ti sei dimenticato che il gioco, all’inizio, era diverso?
I cinque napoleoni li metteva in fila dall’ombelico in su e non
dovevano staccarsi per nessuno motivo, fino alla fine…
Hai ragione, questo me lo ero scordato.
La mano ti accarezzava il sesso invogliato, sfiorandolo come un
foglio dispettoso di carta velina agitato dal vento, e tutte le monete non
dovevano muoversi… e poi si sedeva su di te per nutrirsi mentre tu eri
costretto a fissare l’oscurità per mantenere l’immobilità e l’arco era in
massima tensione e chiedeva solo di scoccare le frecce calde dentro il
suo profondo calore.
Basta! Ormai non ci sono più nemmeno loro, sono scappati per
pagare il nuovo frigo, grande, in acciaio e la lavastoviglie Bosch.
Adesso sicuramente saranno divisi e chissà se qualcuno li riunirà un
giorno su di un’altra roulette d’amore.
Mi ripeto che la Storia non esiste e il tempo va in frantumi, allora
infilo l’azzurro che non volevo capire mentre leggevo di morti per
evitare la vita.
Mi succede proprio così in questi giorni tascabili che trascorrono
noiosi nel passeggiar lombardo lungo le rive dell’Adige in cerca di
me stesso, del Comandante di me stesso o forse del Vice Comandante
di me stesso, alla rinfusa con i miei ricordi inutili come le foglie
dell’autunno sull’asfalto. Allora giro il tappo del limoncino che mi
porto appresso e mi nascondo a berne un sorso, come con il cordiale
un soldato in guerra, pensando ai pesci che nuotano nel freddo del
fiume e che sanno meglio di me perché vivono. La sabbia della riva
nutre mille fiori spuntati dai semi depositati dalle piene di Aprile
mentre un cumulo di vecchi paletti di cemento giace abbandonato tra
le spine vuote di lucertole, come il mio monetiere di legno massello
da quando le spese si rincorrono, si accavallano e si infrangono come
le onde del mare indiavolato di Trieste.
Le foglie si staccano dai vigneti deserti, solamente lunghi solchi di
cavolfiori urlano la loro gioia con le larghe foglie carnose e in grembo
frutti bianchi, profumati di adolescenza che al primo gelo mani callose
strapperanno dalle madri gelose.
L’aria pettina le orecchie e rimbalza gioiosa sulle cortecce rugose
dei salici che vibrano nervosi protestando ciechi.
Apro il mio libro di numismatica, quello in latino dell’Argelati, e
tento di arare il pietroso terreno della mia passione per cercare qualche
germoglio ancora in vita a cui dare un po’ di calore. Un’anatra scappa
all’improvviso starnazzando da un cespuglio secco e giallo, mi
spavento ed il libro mi cade sull’arena piena di luccichii d’argento.
Riprendo il volume e tento di pulirlo. Dopo qualche anno, riaprendolo,
ho trovato ancora i luccichii d’argento della sabbia e il pensiero si
è lanciato senza il paracadute in quel giorno di novembre, quando
cercavo qualcosa che i morti hanno trovato solo nella cassa. Ho chiuso
l’Argelati e mi sono messo seduto, sulla sabbia umida, ad osservare.
Guardavo una bottiglia che nuotava in acqua sussultando diritta,
spariva e ricompariva come la fiducia in me stesso, la sera, dopo una
giornata di legno nella falegnameria della vita.
Le margherite morivano e anche l’erba sul pietrisco della ferrovia
si seccava senza ricordi. Le gambe mi portavano a casa leggendo
l’Argelati alle viti e a Dio mentre un contadino impegnato nel campo
scuoteva la testa sentendomi declamare.
I miei occhi rotolavano inerti nei cassetti depredati del mio
monetiere. I ricordi scippati da mani crudeli strappavano le pagine
dei libri che avevo scritto. L’asfalto divorava la mia erudizione
bucandola con cattiveria creativa per poi lanciarla nei fossi laterali
vergognosamente distrutti.
Ecco come sparisce lo sforzo di anni, come le pagine bruciate del
diario di una vita inutile. Nessuno potrà ricomporre mai quei vuoti.
Nessuno potrà reclamare giustizia. Il drago ha ancora fame e sa dove
è nascosta la sua preda, nell’intimità del mio studio, nelle nostalgie
della mia coscienza, negli angoli pieni del mio essere.
Lasciatemi tornare a casa, rientrare nei miei libri di numismatica,
annegare nei miei nummi, perché solo là, tra loro, percepisco che
fluttua tra me e le mie monete una certa qual felicità che riempie
l’aria sorridendo… mentre ritrovo la misura di me stesso, dei miei
sentimenti, delle mie vanità nascoste… ma adesso non più.
E allora me ne sto qua a contemplare le mie antiche felicità, come
Dante quando pensava all’Arno guardando l’Adige, con il nodo che
gli stringeva il cuore mentre girava lo sguardo sulle Torricelle che lo
ascoltavano attente come facevano le colline di Fiesole.
Ditemi è forse colpa vostra se nelle mia mente, dentro di me, oggi,
ondeggiano indecise idee abbandonate che abbaiano ai ricordi e
all’ombra del mio spirito posseduto e stanco che si ripara dietro gli
angoli diritti e rumorosi del tempo?
Vedete? Non accendo neanche internet per guardare assetato
qualche nummo e non voglio nemmeno incrociare gli occhi di qualche
vecchio listino che rettangola stretto gli scaffali della mia biblioteca.
Non voglio più sentire parlare di Guid’Antonio Zanetti, di Casimiro
Promis, di Bartolomeo Borghesi e di Ennio Quirino Visconti. Ma
neanche di Quintilio Perini e di Solone Ambrosoli, di Giovanni Gorini
e Lucia Travaini, di Ermanno Arslan e di Renata Cantilena, perché?
Infilo l’Argelati, dopo averlo baciato, nella fila dei libri del
Seicento, si merita un riposo dopo la lunga passeggiata dentro di me e
il tuffo nella sabbia del tempo. Se la ricorderà per un po’ di anni questa
avventura con i miei pensieri cupi, quando le idee scappano nere ed
ordinate come le fughe attraverso le piastrelle del pavimento.
Ma cosa mi esce oggi dalla testa? E’ forse la solitudine che
morsicandomi la mente mi lacera i pensieri rendendoli misteriosi? E’
forse lo stesso drago che temo ad inseguirmi perché l’ho disturbato?
Mi sdraio sul letto esausto di nulla e vuoto di sazietà cerebrale.
Metto su “Wonderful life” di Black e rifletto quando predica “no
need to laugh and cry” (non ho bisogno né di ridere né di piangere)
e mi vedo fare capriole in bianco e nero saltando su di una enorme
moneta come una rete rallentata dalle lancette di un orologio rotto.
Domani starò meglio tra le mie monete infreddolite vestite solo di
corti pantaloncini attillati.
La musica mi rapisce ancora e il ritornello, come un preghiera
ascoltata, mi beatifica i sensi.
I nummofili sono paracadutisti lanciati nel passato che nessuno sa
come andare a riprendersi, e io sono uno di loro oggi? Considerato che
di questi tempi di monete non posso prendermene, studio per farmi
passare la voglia di acquistare nuovi nummi. Un’applicazione così
frenetica, una dedizione così innaturale con l’unico scopo inconscio
di farmi crescere dentro una nausea totale per questa mia passione
di possesso, che arrivi a stringermi l’anima fino quasi a strozzarla,
per farmi divincolare e fuggire da questo mondo melmoso e mortale.
Eppure fuori c’è il sole ed il cielo è blu e pare non sapere nulla di
tutto questo. Io invece sto ingozzandomi talmente bene la ragione per
cui comincio a rendermi conto che ormai la mia è una pastasciutta
mentale quella che ho in testa. Salto trafelato dalle opere in latino
del Cinquecento come quelle del Budeo a quelle del Seicento come
l’Argelati. Poi mi butto sull’edizione del “Discorso sopra le medaglie
antiche” di Sebastiano Erizzo del 1559, sul libro di Enea Vico
Parmigiano del 1555…. Giro le pagine multimediali mentre gli occhi
più che bruciarmi mi scoppiano in faccia, non riesco a rallentarmi, i
pensieri si sfidano a duello e tutta questa confusione stenta a capire
dove mettere queste fonti nel mio libro che sto scrivendo, ormai da
quasi cinque anni, in difesa della nummomania e sono solo a pagina 35.
Allora passo, con ancora più ansia, ai necrologi dei grandi numismatici
italiani, tanto per capire se qualche loro vita assomigli alla mia e forse
per comprendere come mai la mia biografia non sia ancora decollata,
ma proceda lenta e stanca in mezzo all’insaputa di tutti.
Ci sono menti raffinate e raccoglitori assidui e pedanti, direttori di
musei civici e solitari che non hanno mai scritto una riga, forse perché
se ne vergognavano e tenevano tutto dentro. La loro grandissima
capacità veniva sfogata nel guardare e studiare le monete e basta.
Mi stufo anche di queste monografie appiccicate al water della
storia e passo ai ritratti dei grandi antiquari numismatici, quelli del
Cinquecento come Jacopo Strada di Tiziano, Andrea Odoni di Lorenzo
Lotto, Paolo Cornaro delle Anticaglie del Tintoretto… e soffro nel
vedere quei visi soddisfatti di sé, colti dai migliori artisti del secolo.
Quegli uomini pieni di antichità e di denari che si potevano permettere
tutte le cose rare e belle che desideravano. Allora guardo le foto in
bianco e nero dei numismatici del Novecento: Quintilio Perini, Solone
Ambrosoli, i fratelli Francesco ed Ercole Gnecchi ma soprattutto il
ritratto del Conte mantovano Alessandro Magnaguti che mi osserva
pensoso e mi riprendo un po’. Sono giorni e giorni che curo la mia
malattia in questo modo e solo una nausea nera mi colora gli occhi e
mi corrode lo stomaco. Va da sé che sono intrattabile e inavvicinabile
da chiunque dato il mio umore nero. I giorni mi guardano vagare
in questo triangolo trasparente del mio studio, si ritraggono da me
mentre ogni lettura mi dà lo stesso sapore di amaritudine in bocca che
non riesco più a lavare con niente. Allora galleggio come un pesce
morto sulla superficie della vita, vagando in balia dell’ultima onda che
si arrotola come un gatto sulla spiaggia della mia desolazione.
Ma la domanda luminosa che si alza dentro la mia mente spuntando
da ogni ritratto che incontro con lo sguardo è questa: “da quanto non
mi prendo una moneta?”. Da così tanto? Però…
Il mio sguardo mi pare forato come un colino e nemmeno le mie
monete riescono a riempire questo sconforto che mette radici nelle
mie profondità e germoglia nero nel mio quotidiano ondeggiare. Ma
davvero non riesco a mettere un altro dischetto vicino ai miei nummi?
Lo sapete che venerdì c’è la fiera della Numismatica a Verona e
l’ansia mi sta pennellando di vernice fresca i nervi da giorni?
Ma cosa serve andare in fiera senza soldi?
A niente, hai ragione. Come quelli che girano tutti gli stand con
gli occhi rapaci e le mani inutili ed escono umiliati insaccandosi nei
giubbotti scuri a litigare con i maniglioni conta-persone che paiono
sapere.
Devo trovare due-trecento euro da qualche parte. Per tutto il resto i
soldi ci sono, per la mia nuova moneta, anche piccola, no.