Memorie di un nummomane, capitolo 16

Prosegue il racconto in prima persona di un appassionato di monete, scritto da un appassionato di monete.

Dopo il quindicesimo capitolo, continua la pubblicazione con cadenza settimanale del libro di Demian Planitzer Memorie di un nummomane. Ovvero: tramonto di un collezionista di monete antiche (pp. 128, Albo Versorio edizioni, Milano 2017, € 9,50).

Capitolo sedicesimo. Eccidio

Di come la libertà nasca dalla morte.

“…allora percepisco che si siedono accanto
a me tutti questi morti ridestati e poi li vedo
salire agili sui pilastri spogli della mia mente per
addormentarsi nei vasi vuoti dei miei pensieri e
riposarsi nel cemento freddo dei ricordi, all’ombra
luminosa della loro immensità”.

Le monete sono come gli uccelli forse? Esseri che si devono mettere
in gabbia se si vuole tenerseli? Ma anche pesci silenziosi che hanno
bisogno delle nostre mani per vivere nell’acquario? Voglio dire allora
una cosa, perché desiderano lasciarmi? Per quale ragione vogliono
spiccare ancora il volo così vecchie di anni e stanche di storia?
State in guardia amici nummofili, perché prima o poi le monete vi
giocheranno un brutto scherzo, prima o dopo scoprirete questa grande
invenzione che è la libertà e capirete che per anni non siete stati liberi
ma schiavi di una passione che non vi faceva più vivere, anche se vi
sembrava invece di godere più vite, con i vostri fidati amanti storici.
La nummofilìa è, in fin dei conti, una tirannia, furba e micidiale.
Una tirannia della ragione e del cuore, che per alcuni sprazzi di piacere
ti lega a doppio filo.
Sono più morbido con me stesso, ora, me ne accorgo; oggi, lo sento,
le redimerei tutte, ma devo invece dar loro una lezione per colpire me
stesso forte al cuore e liberarmi così dalle catene che mi sono costruito
come un prigioniero volontario.
Allora mi alzo e prendo in mano il volume del Corpus Nummorum
Italicorum, quello delle zecche dei Savoia, mi siedo e comincio a
strappare le pagine, le accartoccio e le lancio nel cesto in cui metto la
legna per la stufa. La mia calma è incomprensibile, la mia mano ferma
e decisa come quella di un chirurgo che raschia il cancro alla radice,
senza pentimenti ma con una voluttà segreta. Prendo un accendino, mi
abbasso volentieri davanti alla bocca della stufa in maiolica bianca e
incendio una pagina, due, tre e poi ancora e tutte.
Il fuoco riverbera la mia mente di ricordi, di emozioni, di sensazioni
che fluttuano sulle fiamme, si perdono nel fumo e scappano per sempre
nell’aroma soffocante. Respiro più liberamente, più in fondo, più in
natura. Mi pare di aver sacrificato qualcosa di me in un rito sacro e
liberatorio.
La scena prosegue, ancora pagine strappate, copertine insultate,
righe combuste. Dal camino evapora il demone della passione morto
sul rogo religioso ed implacabile.
Domani tocca alle monete, ormai non posso più fermarmi.
I cerchi della mia mente urlano ingabbiati nel ferro pieno di vetro,
un volume lontano si spalanca tremendo, getto nel fuoco il terzo libro
di Banti e Simonetti alzando lo stereo con i Led Zeppelin che grattano
i muri dello studio coprendo le grida delle pagine che bruciano vive
nell’antro infernale.
Fuori la nebbia sta colando d’acqua sulle piante spoglie di vita, sui
sempreverdi assonnati, sulla fanghiglia della sera: tutto sa di morte,
ogni cosa pretende la sua fine e vuole nutrirsi della sua angoscia.
Vedo due gatti riposarsi all’asciutto su di un vaso dove un’ortensia
aspetta gli scherzi della primavera, guardano assieme la giornata che
passa, per nulla annoiati a non far niente, increduli per la frenesia che
mi ha posseduto, per il cattivo gioco che mi ha travolto.
Sto passeggiando con il mio cane, un pinscher nano, che tira poco e
penso al beneficio del falò di prima.
Sento forte il profumo della vita, piacevole il sapore della libertà,
vago senza meta ma felice come il mio cane che cerca cosa non sa.
Era stato così semplice, così caldo e morbido battere alle bronzee
porte della vita che rimanevo stupito. Abbandonare il mio mondo, che
mi aveva reso così radioso, ed ora ero ancor più felice. Solo adesso
mi sento padrone del mio destino e del mio cuore; l’infinito, non
quell’otto orizzontale che ti insegnano a scuola nell’ora di matematica,
ma l’infinito vero, riposa dentro di me, nella mia anima e riesco a
contemplarlo, ad accarezzarlo.
Cammino stordito riaffiorando dal mio passato come da un burrone,
scorgo sul ciglio giovani stelle alpine, più in là abeti con lunghe gonne
verdi e in fondo distese calme e planari.
Il cuore mi batte in gola, mi percuote le tempie, l’affanno mi gonfia
i polmoni mentre la luna, come un sole bianco, mi invita ad uscire
dalla mia grotta in cui mi rinchiudevo da anni.
La vista della natura riesce a commuovermi, la nebbia entra nel
mio naso per dormire al caldo dei miei pensieri. Assaporo un’estasi
benedetta dall’Onnipotente, le immagini mi ristorano e sono presente,
inizia a nevicare ora lentamente, i fiocchi incerti mi colpiscono i fari
degli occhi, sono in comunione con il mondo, sono parte di lui, ho
fiducia in me e in quello che mi circonda.
Sono inebriato e quasi ebbro di eternità, non conta più né il passato
né il presente, è semplicemente formidabile vivere. Forse sto scoprendo
la trascendenza del mondo che mi aiuta a trovare la trascendenza della
mia anima.
Cammino volando estatico e deferente e tutto è bene. Avverto che
sto spiritualizzandomi in questa sublimazione come le alte cime delle
montagne, sento una forza naturale dentro di me in tutto uguale a
quella fuori di me, ma in questa armonia non dimentico me stesso,
lo trovo che naviga al largo, non scordo la mia rinascita, che gemma
di nuovo, e guardo in faccia il motivo della mia redenzione, su cui
soffermo i miei sensi sensibilissimi.
Ho ritrovato la libertà, si tratta ora di non perderla di nuovo perché
è delicata come un aquilone.
La luce interiore che si è accesa in me non deve più smorzarsi,
domani sacrificherò l’ultima parte di me, la più importante del mio
passato per ripossedere finalmente tutto quello che ho ceduto e così
piacevolmente ritrovato.
Ma sì, giusto così, domani laverò il mio peccato.
Domani prosciugherò la mia Nummofilìa, quel lago trasparente
dove nuotano le nuvole giocando con le cento voci dell’eco. Eppure
solo fino a ieri, solo fino a poco fa, potevo dire orgoglioso … percepisco
che fluttua tra me e le mie monete una certa qual felicità che riempie
l’aria sorridente… mentre ritrovo la misura di me stesso, dei miei
sentimenti, delle mie vanità.
E solo l’anno scorso così scrivevo sul mio diario “ieri ho acquistato
un luigi d’oro. Guardavo quella moneta mentre riempiva di storia il
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mio studiolo, come una luce che fa scappare le ombre e mi sarebbe
piaciuto bere quel chiarore”.
Sono qui ora che guardo il crogiolo di ceramica appoggiato ad un
tronco d’albero tagliato. La fiamma ossidrica esce azzurra dalla lancia.
Eppure fino a ieri pensavo che non esistesse niente di più fresco che
potesse dissetare la mia anima… quando sostenevo che le monete sono
per me come una fazzolettata di ciliegie mature appena raccolte nel
mio brolo. Quando proclamavo che la Nummofilìa riempie il nostro
cuore di melodie, mentre la nostra anima abbraccia uno struggimento
che ci espande…
E ora invece brucio i miei ricordi come coriandoli, uccido vite,
stermino persone per stare in pace con me stesso, per riconquistarmi
alla vita e penso alla mia dolce metà, la sera a letto, quando si allontana
da me come un grosso pesce che vede un amo minaccioso. Penso ai
mucchi di sabbia che si sono depositati stanchi nelle secche della mia
mente. Vedo il metallo che cola giallo, argenteo, rossiccio nel crogiolo
bianco, pian piano si liquefanno quei tesori scomparendo per sempre
in quel lago di oricalco denso come il mercurio, dove mi piaceva
nuotare nudo con il remo della mia mente.
Il liquido incandescente pare freddo, aderisce alla monete come
fosse gelatina, le abbraccia, le sommerge e poi, rapprendendosi, si
unisce a loro sciogliendosi assieme in un amplesso mortale. Ora il
cumulo si abbassa e le sopravissute sembrano galleggiare sperando
che quella cosa le risparmi. Mescolo allora con un cucchiaio di legno
mentre la fiamma ossidrica tiene vivo l’impasto celestiale. Con i
robusti guanti sono in salvo dalle grinfie di quelle disperate effigi
che si liquefanno mutando in un lampo orribilmente i lineamenti.
Alcune guance si gonfiano, fronti scoppiano, nasi si spalmano. Vedo
l’aureo di Traiano rinunciare al mento, il denario di Marco Aurelio
perdere la barba da filosofo, i quattro ducati di Francesco Giuseppe
non disperano per aver perso il collo, i trenta ducati del Regno delle
Due Sicilie di Ferdinando II immergere le gambe del genio nella
lava sterminatrice, il codino di Vittorio Emanuele I delle venti lire
annegare accanto alla vittoriola delle Cento lire Vetta d’Italia di
Vittorio Emanuele III, la corona di Carlo V sullo scudo d’oro del
sole ridiventare d’oro massiccio, l’augustale di Federico II morire di
traverso nel lago impietoso, e poi gli stateri di Filippo II e Alessandro
Magno, le monete di Taranto con Taras che non riesce a far nuotare
il suo delfino in questo metallo fuso, là il Pegaso alato di Corinto,
Civette di Atene, darici che si spaventano, marenghi che cedono uno
dopo l’altro, inermi e muti.
Potevo vedere nel fondo del crogiolo che il passato saliva come
una nebbia polverosa dalle monete consumate, le vite resuscitate
gocciolavano di memorie umide che si allungavano nere come le
ombre dei cipressi, la sera, lungo il selciato duro del tempo… ma era
tutto inutile.
Ecco che ora toccava alla batteria di solidi bizantini che aggiungevo
nel crogiolo come elemosina o sacrificio per un drago che avevo
imparato a conoscere dal mio viaggio a Roma.
Appoggio sul cucchiaio di legno, come tante fish per il tappeto
verde, denari repubblicani di Spurius Afranius, aurei di Alessandro
Severo, di Elio e Massimiano, di Nerone e Tito e li allungo nel
crogiolo rossastro girando il cucchiaio per farli annegare dolcemente,
come gattini appena nati in un bidone pieno d’acqua.
Scompaiono mollemente rapprendendo il metallo come per
difendersi al primo contatto letale, ma poi l’inesorabile destino li
sovrasta e ora sono già sotto come sommergibili inutili, chissà quali
saranno i loro ultimi pensieri.
Adesso infilo dentro lo statere di Aegina, del 350 avanti Cristo,
una moneta incredibile con una tartaruga in rilievo inimmaginabile,
tremila euro: niente, non sento nulla, guardo muto lo stampo dove
devo trasferire quel liquido pesantissimo.
Avevo, tempo fa, eseguito in plastilina un ritratto femminile, che
mi ricordava la mia dolce metà ma aveva qualcosa anche delle mie
vecchie fidanzate, lineamenti rubati da visi giovanili che mi avevano
amato e che avevo posseduto. Ne era uscita una creatura nuova, forse
con vari cervelli, vari sguardi, vari modi di sentire con il cuore. Avevo
deciso che quel metallo dovesse prendere quella forma, parlo di un
piccolo busto di tredici centimetri per cinque, non di più.
Occhi orizzontali, vuoti, sopracciglia rettilinee, chignon attillato e
ricamato, naso vezzoso, labbra pronunciate, tornite leziosamente, due
perle ai lobi, fronte alta, lucida non piatta e un sospiro tra i denti.
La mia nummomanìa doveva trasformarsi, nel crogiolo di vite, in
un’unica effige che le racchiudesse tutte. Con il cucchiaio tolgo le
impurità del metallo liquido sbattendole sul marmo che ho vicino ai
piedi.
Rimangono da fondere un po’ di monete del regno d’Italia,
tanto per fare volume. Riempiendo il crogiolo, il metallo diventa
denso fino a gelarsi tutto, come se volesse ritornare subito solido,
emettendo bagliori grigi come avessi sciolto solo piombo e stagno.
Ma le monete, in un tremito generale, cedono i cerchi della durezza
nell’amplesso collettivo. Il cucchiaio mescola ingrato tutti gli anni
di amore, volteggia nelle profondità dense della storia, nei meandri
spalmabili del passato.
Eppure alcuni pensieri mi soffocano il naso come quando sognavo
che una moneta grande, calda come una nuvola d’estate, dura come
l’orgoglio di un adolescente, mi apparisse roteando in cielo mossa
da un triscele siciliano. Allora tento di chiudere gli occhi ma non ci
riesco perché le rapide della mia memoria sono diventate impetuose
e schiumanti di ricordi storici… Il sacco era finito, ma stranamente
i movimenti che fino a quel momento avevo fatto non erano dettati
dalla rabbia o dal rancore ma solo da un destino che leggevo a labbra
larghe.
Guardo l’ultima moneta che nuota nel lago denso e convesso
sussultando diritta come l’ultimo fotogramma arrotolato di una
cinepresa fallita.
Ci siamo, spengo la fiamma e con prudenza verso il liquido nello
stampo di gesso che prima ho legato con due giri di filo di ferro
e poi immerso in un secchio di sabbia per evitare che si formino
delle crepe e per mantenere il calore, così da permettere al liquido di
entrare in tutti i dettagli del viso, raffreddandosi lentamente.
Il crogiolo è pesante, per questo ho fatto con il filo di ferro un
arco per tenerlo come un secchiello. Appoggio il bordo sullo
stampo e verso con somma cautela il sangue argentato dai bagliori
d’oro, allontanando il viso dal calore venefico. Il liquido caldo
sembra mercurio bollente, pesante e denso ma scorrevole. Scappa
nell’invaso in fretta, con forza e determinazione. Riempie tutto il
buco del ritratto rovescio che finisce in alto con il collo tagliato.
Il liquido basta giusto per riempire tutto lo stampo. Appoggio per
terra il crogiolo e osservo il metallo nel pozzo che si indurisce da
solo, ineluttabilmente, come un cadavere che guardandoti scompaia
nell’abisso nero.
Il gesso fuma come la cassa di legno di un fucile che ha sparato
troppi colpi. Le monete non ci sono più ma ora tutto il mio desiderio
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è di vedere la loro trasformazione nello stampo del tempo. La sabbia
si sta scaldando e sento un colpo sordo, segno che il gesso si è
fratturato per il calore, speriamo non sia niente di grave.
Il metallo si calma, adesso ha acquistato serietà ed un colore grigio
con riflessi argentei e bagliori dorati, come se un pesce che vi guizzava
dentro fosse stato improvvisamente congelato. La pasta pare dura,
invincibile, irremovibile.
Alzo gli occhi, un cielo terso e un sole splendente sorgono sulla mia
guarigione, dopo secoli e millenni il metallo è tornato alla natura per
ridiventare subito qualcos’altro.
Quanto tempo per riconoscere ancora la forza del fuoco che fonde,
del calore che ti trapassa, quante mani ho cancellato dalla superficie
di quei dischi, le mie, colpevoli di nummicidio in serie, praticamente
una strage.
Mi guardo attorno e comincio a sentire una purificazione nel mio
cuore, una sensazione di diario vuoto ma pieno di pagine da scrivere,
di stanze da riempire, di strade da percorrere, di boschi da attraversare
senza zaino.
Guardo il secchio che contiene la sabbia riscaldata, che avvolge
come un sacco a pelo il prodotto del mio lutto.
Prendo un sigaro all’anice, tolgo il cellophan e lo accendo con
voluttà, con desiderio, come quando si fuma dopo l’amore. Il fumo
si mescola a quello del metallo, le foglie bruciano trasformandosi
in piacere e cenere, come le mie monete che mi hanno dato l’ultimo
brivido prima di scomparire annegate nella fine.
Le volute bianche si alzano al sole come una preghiera pagana,
sono seduto come un generale che ha terminato la guerra perché non
ci sono più nemici.
Osservo il martello che si prepara a spaccare il gesso, la tenaglia
che userò per tagliare il filo di ferro. Per aumentare il desiderio di
aprire lo stampo ritardo il momento in cui romperò la forma.
Passeggio lungo la siepe di gelsomino che mi porta ai filari di viti
spogli dove le oche starnazzano rincorrendo conigli bianchi come loro.
Guardo da lontano il mio tesoro, minuscolo nella luce del presente,
torno verso di lui, mi inginocchio accanto a questo vaso di Pandora,
fisso il metallo e chiudo gli occhi… allora percepisco che si siedono
accanto a me tutti questi morti ridestati e poi li vedo salire agili sui
pilastri spogli della mia mente per addormentarsi nei vasi vuoti dei
miei pensieri e riposarsi nel cemento freddo dei ricordi, all’ombra
luminosa della loro immensità.
Rovescio il secchio con un calcio, la sabbia clessidra via, taglio i
fili di ferro come le bende di una mummia preziosa. C’è una frattura
verticale appena visibile, prendo il martello e batto con forza sul bordo
piatto dello stampo, vicino al collo, il gesso cotto salta subito mentre
il metallo fuma appena liberato dall’abito bianco.
Con un pennello tolgo la polvere calda del gesso e rovescio il
ritratto argenteo dai bagliori oricalco.
Il diavolo della Nummomanìa si è trasformato nella dea della
Nummofilìa, un volto lucente che ammicca pieno di storia, di vite, di
monete, di passioni inenarrabili con le sembianze di femmine da me
amate.
Nessuno può sapere cosa vi sia dentro quel viso, ma io sorrido
compiaciuto per la trasformazione della mia manìa in un ritratto
impregnato di significanze. Con un cucchiaino lucido le labbra e
gli orecchini di perle, accarezzo il volto caldo come fosse un tesoro
vivo e ne ho ben donde, ad occhio e croce varrà, numismaticamente
parlando… no, vi prego, non fatemelo dire.
Il sole divora i capelli all’in su, le guance lascive, il collo sensuale,
la voce appena accennata, i timpani sensibilissimi.
Sono guarito dalla mia malattia ora?
Ma dovevo purificarmi così? Come Abramo con il figlio Isacco?
Ma lui si era fermato mentre io no.