Memorie di un nummomane, capitolo 15

Prosegue il racconto in prima persona di un appassionato di monete, scritto da un appassionato di monete.

Dopo il quattordicesimo capitolo, continua la pubblicazione con cadenza settimanale del libro di Demian Planitzer Memorie di un nummomane. Ovvero: tramonto di un collezionista di monete antiche (pp. 128, Albo Versorio edizioni, Milano 2017, € 9,50).

Capitolo quindicesimo. Ammunitamento

Di come si sorprenda una ribellione improvvisa.

“Forse perché in realtà le mie monete
sono file infinite di cipressi malinconici che
conducono al camposanto della Ragione?”.

Non so se quando ero giunto a questi ragionamenti estremi il
sonno mi avesse già colto e quindi erano parte solo di un incubo
innocuo. Non so, ripeto, se fossi arrivato razionalmente a tali propositi
nummicidi, tuttavia ora non nascondo che l’ebbrezza della distruzione
delle mie gioie avesse messo le radici proprio in quella sera, capolinea
di una giornata in cui la passione mi aveva trasformato in un maniaco
cleptomane, facendomi sorvolare, a motori spenti, precipizi paurosi.
Forse perché in realtà le mie monete sono file infinite di cipressi
malinconici che conducono al camposanto della Ragione?
Ma quella sera le ali del mio cuore erano stanche, spossate e i piedi
del mio ego gonfi e feriti, forse avrei avuto bisogno della vicinanza
di un amico, o forse della comprensione di qualcuno che non mi
conosceva. Il piatto fondo del mio egoismo si era imbandito da solo
con pietanze golose che avevano come unico scopo di ingozzarmi
e strangolarmi. I candelabri della mia rettitudine erano stati spenti
dal vento della brama, il paralume della mia coscienza era ridotto a
brandelli e le voglie comunicavano con il cuore senza il filtro della
mente. Le pagine della mia fine erano state già scritte, bisognava solo
stamparle e leggerle.
Vedevo i volumi del mio Corpus Nummorum Italicorum di Vittorio
Emanuele III, rilegati in lussuosa pelle, aprirsi, dare il dorso al cielo
e camminare sul pavimento del mio studio accoppiandosi poi con i
volumi del Corpus Nummorum Romanorum di Banti e Simonetti,
in un orgia incestuosa che trafiggeva la mia moralità. Saliscendi
di monete dalle travi al pavimento come fiocchi di neve che poi
friggevano al sole ammalato di dicembre. Le scatoline vuote urlando
saltavano in aria, aprendo di scatto i coperchi come strani bivalvi
scottati da un’enorme padella incandescente piena d’aceto e tutto
il mio studio bolliva in una ribellione ai miei pensieri di morte che
le mie compagne avevano udito, annusato o forse solo immaginato
vedendomi entrare stravolto dopo il mio viaggio a Roma, forse
perché intravvedevano gli artigli rapaci e funerei della mia mente.
Sembrava che un vento tremendo avesse messo a soqquadro
lo stanzone del mio studio, ancora scappano a pagine levate i
miei libri di numismatica, le monete rotolano come tante ruote
improvvisamente svitate dai mozzi, scatole e scatoline morsicano
le tende tentando di saltare dalla finestra aperta. Mi accorgo che già
molte hanno rimbalzato sulla scala e stanno fuggendo alla rinfusa
saltellando spaventate, ma ugualmente ridendo alle mie spalle come
tanti folletti malefici. Vedo l’aureo di Adriano che vola leggiadro
seguito dal sesterzio di Marc’Aurelio, poi ecco il denario di Nerone,
quello del mio ventesimo compleanno, poi ecco lo zecchino di
Andrea Dandolo e il genovino di Simon Boccanegra. La sovrana di
Francesco Giuseppe ha sbattuto contro il portaombrelli di peltro ed
ora è accasciata vicino al battiscopa di marmo, con le gambe rotte
che aspetta aiuto. Vedo le 5 lire di Vittorio Emanuele II, regalo del
mio dodicesimo compleanno, che mi tradiscono urlando ma sono
cadute nel vaso del fico d’India e sporche di terra non sanno come
riprendere la marcia. Ecco le venti lire di Vittorio Emanuele I che,
con le doppie del primo tipo acquistate nel 2000, rimbalzano d’oro
sul tappeto persiano, altere in mezzo ai cinque franchi d’argento di
Napoleone I che non riesce più a spaventarle. Taras sul delfino sta
inseguendo una civetta di Atene immobile su una dracma d’argento,
seguito dal Pegaso di Corinto. Pare impossibile ma le monete greche
vanno con quelle greche, quelle romane con quelle romane, quelle
medioevali con le pari periodo, forse per fratellanza storica, forse per
affinità temporale, chissà.
Io rimango stordito a guardare quei miei figli ingrati che
abbandonano il loro padre, non riesco a scuotermi per catturarli, sono
paralizzato dal torto, perché mi sembra di averle trattate con tutti i
riguardi del caso dando tutto me stesso e la mia vita per questi infiniti
decenni. E invece ecco come vengo ripagato.
Era affascinante però sentire il suono dei balzi e vedere le acrobazie
che quei dischi eccitati tentavano pur di mettersi in salvo. Era strepitoso
quel fuggi fuggi generale come se fosse scoppiato un incendio o
venuto il terremoto.
“Che fate, ingrate?”, “Che fate ingrate?”, era un suono animalesco
che usciva quasi involontario dalle profondità del mio petto.
“Venite qui vigliacche”, urlavo in preda ad un odio che ora montava
assoluto e che spaventava anche me.
“Venite qua”, era il ruggito lugubre della sfida che lanciava il mio
cuore squadernato, il grido della mia mente traforata, la disperazione
della mia anima masticata.
Quelle aumentavano l’andatura rotolando dalle scale sempre più in
fretta, cadevano dallo spavento, urtando e spingendosi. La quadrupla
della lupa aveva battuto il fianco del ritratto di Odoardo Farnese contro
l’angolo del muro e ora, sfregiata, ansimava sul pavimento palpitando
di paura, come un pesce agitato balzato fuori dall’acquario.
Avevo recuperato un sacco di stoffa e catturavo al volo i dischi come
fossero farfalle paurose o rane saltanti o cavallette volanti. Imprecavo
contro di loro frasi inenarrabili di odio e morte. Cacciavo dentro le
scatoline che saltavano in aria, calciavo i volumi che scappavano
per farli cadere distruggendo il loro precario equilibrio ed afferrarli
di scatto. E poi, ecco i ducati veneziani dentro nel sacco, quindi i
fiorini, le doppie, gli scudi romani, i ducatoni, i talleri, le sterline e
tutti tiravano calci allo stesso modo, come tanti animali in trappola.
Per loro ero sicuramente l’orco del male, ma il mio cuore mi doleva
per la loro ingratitudine, le rincorrevo, le atterravo a schiaffi, poi le
raccoglievo e le buttavo nel contenitore calciando quelle lontane
contro i muri per impedire loro la fuga. Era una battaglia davvero, mi
sentivo come Gulliver con i Lillipuziani, ma era vero che scappavano
anche se stentavo a crederci anch’io.
Sudavo e sbavavo dalla rabbia. Quando finii e vidi che avevo vinto,
mi sedetti grondante, con il sacco pieno di ribelli.
Legai il bottino e mi lavai il viso caldo.
Ero stravolto. Avevo la faccia rossa, gli occhi iniettati di sangue e i
capelli arruffati, le orecchie ancora con il sibilo delle mie urla. Strano
che non ci fosse la mia dolce metà in giro.
Mi attaccai alla fontanella d’acqua del rubinetto e bevvi esausto
l’acqua del giusto. Avevo ripreso quelle galeotte, pensavano di
farcela ad evadere dalla mia prigione quelle stupide, dal mio mondo
meraviglioso che avevo costruito attorno a loro con tanta dedizione,
con tanta venerazione.
Ma un pensiero di morte si faceva sempre più affascinante, sempre
più esteso, sempre più ineffabile come il male. Il male non solo
bello e grandioso, ma sublime. Il male che lussureggia sterminato e
sterminatore. Il male pieno di gratitudine beffarda. Volevo disfarmi
di quel guardaroba pieno di costumi che sono le mie monete. Volevo
cambiare vita e spirito, diventare ancora un invidiato errante alla
ricerca della sua chiave spirituale, della sua borraccia di vita e non
essere un sedentario con l’anima già trasparente tra le dita, filtrabile
facilmente dalle moine altrui.
Nel mio studio decine di occhi mi guardano. Cerco sempre la
solitudine per essere me stesso, in mezzo alla folla sono un altro alla
ricerca di me negli sguardi altrui, in mezzo alle persone che conosco
sono io come vorrei essere, ma solamente nel mio studiolo, chiuso
nel mio mondo, trovo la mente eletta che sento in me e che a volte mi
adula.
Mi sono circondato però involontariamente, lo capisco solo ora, di
visi e ritratti muti che mi guardano e mi sorridono, oppure mi evitano
e mi redarguiscono. Sono volti che ho fatto io stesso, uomini e donne,
anziani e giovani, adolescenti e soldati.
Cerco addirittura risposte dalle mie creature, come se Dio volesse
imparare da noi, assurdo o politico?
E poi visi ad olio, in miniatura, che mi piace sentire che mi
osservano, quasi guardassi dentro uno specchio che invece di riflettere
il mio volto illustra la mia interiorità materializzata in particolari
giorni della mia esistenza, più di una pagina scritta, certo, più di un
albero piantato e cresciuto con me, più di una nave che solca rovescia
l’oceano.
I ritratti sono collocati in modo che tutti mi guardino, esempio
perfetto del mio egocentrismo, forse? Paradigma della mia ambizione?
Così come le monete? Che per anni ho fatto girare nelle mie mani
come fossi io, dopo tutto, il vero imperatore del passato con la storia
tra i miei polpastrelli?
Era questo che voleva suggerirmi il vento della mia passione?
Il sacco delle mie monete, pulite delle scatole, ora giace innocente
sul mio scrittoio. Non voglio aprirlo perché sennò, e lo so, non saprei
più resistere al loro fascino malefico.
Mi alzo, devo rilassare i miei nervi e non procedere d’istinto.
Andate a farvi quattro passi anche voi, dai.
Andremo avanti dopo.