LA ROYAL AFRICAN COMPANY E L’ETICA DELLA NUMISMATICA

documents-button(di Antonio Castellani) | Kevin D. Goldberg, oltre che docente presso il Dipartimento di Storia e filosofia della Kennesaw State University di Atlanta, negli Stati Uniti, è da oltre un trentennio appassionato di numismatica, in special modo europea, di cui si occupa sia come collezionista che come “columnist” per riviste specializzate. In un suo recente articolo apparso nel portale “CoinWorld” (leggi qui il testo completo) si è soffermato, in particolare, a riflettere su un interrogativo: una moneta “politicamente contaminata” può “contaminare” anche colui che la colleziona? E’ ovvio che raccogliere monete naziste oppure, per un americano, conii di una nazione “nemica” (almeno, fino a poco tempo fa) come Cuba, introduce un elemento “politico” ed “etico” nell’atto del collezionare, ma quanto e in che modo l’appassionato può distinguere monete “buone” e monete “cattive”?

Abbiamo sempre ritenuto, come testata dedicata allo studio della storia umana attraverso le monete, le medaglie e le banconote che ciascuna di queste non sia altro che una testimonianza del passato o del presente e che, come tale, vada compresa, conservata e rispettata: sta poi alle opinioni di ciascuno attribuire a quei pezzi di metallo o di carta filigranata un valore “positivo” o “negativo”, esaltarli o aborrirli. E’ pur vero che – ricorda Goldberg – l’esempio della Royal African Company rimane simbolico, nella storia come nella numismatica, a testimoniare quanto una moneta possa portare con sé una sorta di “marchio d’origine” e, quindi, spiga più di altre a riflettere.

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Un eccezionale esemplare di mezza corona a nome di Carlo II d’Inghilterra datata 1681 e con i simboli del castello e dell’elefante al dritto (source: Heritage Auctions)


A cavallo tra XVII e XVIII secolo, la Royal African Company deteneva il monopolio del commercio degli schiavi tra i Caraibi e le colonie del Nord America, in particolare la Virginia: un traffico disumano che vide decine di migliaia di uomini trattati alla stregua di merci, marchiati a fuoco, fatti viaggiare per mare in condizioni terribili e, infine, impiegati in mansioni faticosissime, torturati e maltrattati fino alla morte.

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Lo stemma della Royal African Company, monopolista nel commercio di schiavi tra i Caraibi e il Nord America (source: web)


Come di uomini, la Royal African Company faceva anche commercio d’oro e d’argento, i metalli più preziosi estratti dalle miniere coloniali e portati in patria, dove la Royal Mint provvedeva a farne monete. Sta di fatto che queste coniazioni, appartenenti al periodo 1688-1722, risultano ancora oggi riconoscibili dal momento che su scellini, mezze corone, corone e ghinee venivano apposti – se la battitura era stata effettuata con l’oro della compagnia – un castello e un elefante sul dritto, sotto il ritratto del sovrano di turno. Un po’, insomma, come sarebbe avvenuto un paio di secoli dopo anche in Italia quando, a nome di Vittorio Emanuele III, vennero coniate – in appena 115 esemplari – le 20 lire Aquila araldica del 1902, con il metallo estratto dalle miniere della Colonia Eritrea. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.

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Ghinea in oro del 1691 a nome di Gugliemo e Maria coniata con l’oro della Royal African Company (source: St. James Auctions Ltd.)


Altre monete britanniche, nel corso del XVIII secolo, avrebbero recato marchi distintivi, come LIMA per quelle battute con l’argento conquistato agli Spagnoli durante le battaglie navali del 1740 o SSC, sigla identificativa della South Sea Company. Monete oggi rare e che, in ragione di un simbolo o di una sigla, presentano un plusvalore storico e, come tali, sono ancor più ricercate degli esemplari “normali” da parte dei collezionisti. “Tuttavia – si chiede nel suo articolo Kevin D. Goldberg – anche se i secoli che ci separano dalle efferate azioni schiavistiche della Royal African Company hanno ormai attutito le grida delle vittime, non è forse vero che tutti noi collezionisti condividiamo l’obbligo di essere a conoscenza del sangue che scorre sotto i piedi dell’elefante?”.