DOSSIER SPECIALE: IL FIORINO DI FIRENZE,
STORIA DEL “DOLLARO DEL MEDIOEVO”

(di Antonio Castellani) | 1252–1533: è racchiusa tra queste date, distanti quasi tre secoli, la parabola di una delle monete più importanti della storia occidentale: il fiorino d’oro di Firenze. Oggi, a distanza di 750 anni dalla sua prima coniazione, questa moneta internazionale del passato definita “il dollaro del medioevo”, torna d’attualità anche grazie alle solenni celebrazioni che, lo scorso 16 novembre, hanno avuto luogo nel Palazzo della Signoria di Firenze. Nato per dare corpo al “fantasma” della lira di 240 denari, introdotta alla fine dell’VIII secolo da Carlo Magno e rimasta, fino alla metà del duecento, solo un’astratta unità di conto, il fiorino fu il principale protagonista, assieme al genovino (nato anch’esso nel 1252) e al ducato veneto (coniato a partire dal 1284) della terza rivoluzione monetaria del medioevo, quella che vide la massiccia reintroduzione della moneta d’oro in Occidente dopo secoli caratterizzati, quasi esclusivamente, dalla coniazione di denari d’argento sempre più svalutati e dalla successiva introduzione dei grossi.

La fortuna del fiorino fiorentino fu il risultato di più fattori concomitanti, primo tra tutti il favorevole periodo in cui venne ne venne decisa l’emissione: dalla fine del XII alla metà del XIII secolo, infatti, il rapporto di valore tra oro ed argento era sceso da oltre 1:10 a circa 1:8,4 , rendendo conveniente l’introduzione di una nuova moneta aurea che, in seguito a successivi apprezzamenti dell’oro (giunto a valere, nel 1310, oltre 14 volte più dell’argento) non smise mai di rivalutarsi divenendo, per la sua costante bontà, un apprezzato mezzo di pagamento e una pregiata riserva di ricchezza.

Inoltre, il fiorino nacque come espressione di una città e di un contado che stavano vivendo, alla metà del duecento, una prodigiosa espansione commerciale: mercanti e banchieri toscani, infatti, intrattenevano stretti rapporti con Napoli, Genova, Venezia e le altre piazze mercantili italiane, senza contare la Francia, l’Inghilterra, la Spagna e le Fiandre. Inoltre, pur senza essere marinai di lungo corso come veneziani e genovesi i fiorentini si spinsero, a più riprese, fino a regioni lontane come la Turchia, il Mar Nero e l’Africa settentrionale. Qui, soprattutto in Tunisia e Marocco, ricevevano come pagamento cospicue quantità d’oro in polvere (detto “oro di pagliola”) proveniente dai fiumi auriferi del Senegal e che i mercanti riportavano in patria accrescendo il benessere e le potenzialità finanziarie di Firenze.

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Veduta della città di Firenze alla fine del 1400 (dipinto di Francesco di Lorenzo Rosselli, XV secolo)

La città era, del resto, già ricchissima: ogni anno, senza contare le altre attività manifatturiere (produzione di ceramiche e maioliche, smalti, oreficeria), le circa trecento botteghe fiorentine di tessitura producevano 100.000 pezze di panno di lana ritenute di qualità pari, o addirittura superiore, a quelle fiamminghe, per un giro d’affari di circa 1.200.000 fiorini. La Firenze della seconda metà del XIII secolo, che contava quasi 100.000 abitanti, per dirla con le parole dello studioso Carlo Maria Cipolla, “arrivò a rappresentare pel mondo di allora quello che Londra rappresentò per l’Ottocento: non solo un grande centro culturale, commerciale e manifatturiero, ma anche la principale piazza finanziaria del tempo”.

In queste condizioni fu possibile coniare e immettere sul mercato, in grande quantità, fiorini ad un titolo di 24 carati (1000 millesimi) e aventi un peso legale di 3,5368 grammi (pari a 1/96 della libbra di Firenze) mantenendo le stesse caratteristiche fino al XV secolo, quando peso e diametro vennero leggermente accresciuti in modo da avere una moneta più larga, analoga al ducato di Venezia e che, in virtù della sua dimensione maggiorata, rendesse visibili le eventuali tosature. Correva l’anno 1422 e questa data, tradizionalmente, divide la storia della moneta fiorentina in due periodi: quello del fiorino d’oro “stretto” e quello del fiorino “largo” caratterizzati, rispettivamente, da diametri attorno ai 19-20 e ai 20-21 millimetri. Dal punto di vista iconografico, invece, la moneta mantenne le stesse impronte ed iscrizioni fino al XVI secolo: al dritto, essa recava il giglio, simbolo di Firenze, e l’iscrizione FLOR ENTIA mentre, al rovescio, era effigiato San Giovanni Battista, patrono della città, circondato dall’iscrizione . S. IOHA NNES . B.

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1256 – Fiorino senza simboli – mm 19,9 – g 3,45 | Moneta battuta sul campo di battaglia di San Jacopo al Serchio per celebrare la vittoria di Firenze contro Pisa

Circa un secolo prima, tra il 1339 e il 1349, il fiorino era sopravvissuto ad una delle più terribili crisi economiche patite da Firenze nel corso della sua storia: al dissesto della finanza pubblica sfociato, nel 1345, nella bancarotta del Comune si era sovrapposto, infatti, il mancato recupero dei crediti concessi dai banchieri a Edoardo III d’Inghilterra per la Guerra dei cent’anni contro la Francia. Per avere un’idea, seppure approssimativa, dell’enormità delle ricchezze in gioco basti pensare che il debito pubblico del libero Comune toscano era salito, dall’inizio del secolo al 1343, da 50.000 a oltre 600.000 fiorini e che il solo banco dei Bardi (fallito nel 1346) aveva concesso al sovrano inglese crediti tra i 600.000 e i 900.000 fiorini.

Nonostante queste difficoltà, la zecca cittadina (che era stata aperta attorno al 1237) continuò a coniare senza interruzioni sia la moneta grossa che quella piccola subendo, inoltre, numerosi ampliamenti volti a migliorarne la sicurezza e l’operatività. Trasferita, nel 1346, in un edificio in Piazza della Signoria (non si hanno notizie precise sulle sedi precedenti), l’officina monetaria venne spostata, per far posto alla loggia dei Lanzi, in alcuni palazzi nei pressi della chiesa di San Piero Scheraggio, accanto alla fabbrica degli Uffizi, ove rimase per molti decenni. Qui, a partire dal 1361, lavorarono abili intagliatori di conii scelti dalle sette Arti Maggiori della città, notai e cassieri, fonditori ed “uvrieri”, quegli operai addetti alla preparazione dei tondelli e alla coniazione a martello che, all’inizio della loro attività in zecca, dovevano versare 300 fiorini d’oro a garanzia della propria onestà. Tutto il personale operava sotto la direzione dei Signori della Zecca, i cui emblemi hanno consentito agli studiosi di distinguere, tra i fiorini d’oro, quelli “anonimi” da quelli “con simboli”. Nei primi, coniati dal 1252 al 1300, non compare infatti alcun segno che identifichi lo zecchiere mentre nei secondi vi è, accanto alla mano destra del Battista, una piccola armetta che, in seguito, ha consentito la datazione esatta delle monete per anno e semestre.

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1423 – I semestre – Fiorino – mm 21,0 – g 3,50 | Armetta dello zecchiere Antonio di Ubaldo di Fetto Ubertini

Gli zecchieri di Firenze erano due, uno per le monete d’oro prescelto dall’Arte di Calimala e l’altro, responsabile delle emissioni in argento e mistura, nominato dall’Arte del Cambio. In carica, salvo poche eccezioni, per la durata di sei mesi, nel corso del loro mandato gli zecchieri apponevano la propria armetta sulle monete ed erano strettamente controllati nel loro operato. Peso, diametro e contenuto d’oro dei fiorini e delle altre specie dovevano risultare, infatti, quanto più possibile costanti e, a tal fine, agivano due “sentenziatori” che, nominati tra i ”boni aurifices” fiorentini, saggiavano gli esemplari coniati per decidere se metterli in circolazione o rifonderli.

Per la verifica ponderale esistevano due esemplari di un peso ufficiale, detto “saggiolo”, corrispondente al peso minimo tollerato per il fiorino d’oro e, mentre un esemplare era usato dai “sentenziatori” per i saggi in zecca, l’altro era custodito dal Capitano del Popolo che verificava, ogni settimana, la corrispondenza tra i due campioni.

Nonostante questi tentativi di mantenere costanti le caratteristiche del fiorino, tuttavia, piccole variazioni di peso e di titolo ebbero luogo a più riprese, facendo oscillare la moneta di Firenze tra un minimo di 3,3288 grammi (nel 1402) ed un massimo di 3,5515 grammi (nel 1422). Dal punto di vista del contenuto d’oro, invece, si andò da un minimo di 954,9 millesimi (ma è un caso isolato) ad un titolo pieno di 1000 millesimi, per una media di 987,7 millesimi di fino. Nei commerci si arrivò a distinguere, di caso in caso, i fiorini “nuovi” , ”pesanti” , ”forti” , ”leggeri” , ”manomessi” e “macchiati” senza contare gli esemplari usurati dalla circolazione, quelli tosati e, infine, quelli contraffatti.

Dall’esigenza di distinguere fiorini battuti a tagli diversi nacque così, nel 1294, l’idea del “fiorino di suggello”. Esemplari di pari titolo venivano conteggiati e verificati da un saggiatore per essere, quindi, sigillati in sacche di cuoio. Esistevano sette suggelli, corrispondenti ad altrettanti titoli e, grazie a questi marchi di garanzia, le sacche passavano da mercante a mercante svolgendo esse stesse il ruolo di mezzo di pagamento. I “fiorini sigillati” continuarono a circolare, in città e sulle piazze estere, fino al XV secolo, quando vennero progressivamente sostituiti dalle lettere di cambio.

Conseguenze ben più gravi ebbe, invece, il fenomeno dell’adulterazione e della falsificazione, affrontato dal Comune di Firenze con leggi severe al punto da prevedere, per i colpevoli, il taglio della mano e il rogo. Subì questa sorte, nel 1281, anche mastro Adamo da Brescia, abile orafo reso celebre da Dante Alighieri che lo collocò nell’Inferno della “Divina Commedia” per aver falsificato i fiorini abbassandone il titolo da 24 a 21 carati (875 millesimi). Così facendo, mastro Adamo e i suoi committenti (i conti Guidi di Romena) avrebbero guadagnato, nel cambio, un fiorino ogni otto senza alterare l’aspetto delle monete. Giunto a Firenze, tuttavia, mastro Adamo venne scoperto mentre tentava di spacciare alcuni fiorini falsi e, imprigionato dalle autorità cittadine, venne in seguito processato e giustiziato.

Andò meglio, ma solo in parte, al protagonista di una delle novelle del “Decamerone” di Giovanni Boccaccio: l’uomo, richiesti cinquecento fiorini per concedere ad un nobile catalano una notte d’amore con la propria bellissima sposa, si vide infatti pagare con ”popolini” d’argento che, ricoperti d’oro, potevano essere confusi con i nobilissimi fiorini senza, peraltro, averne il valore.

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Forziere del XIII secolo conservato a palazzo Davanzati a Firenze e pagina del “Fiorinaio” che raccoglie impronte, armette e annotazioni su tutti i fiorini

Al di là di questi episodi, interessanti perché narrati da due dei massimi esponenti della letteratura italiana del trecento, vi è una realtà storica complessa che ha visto il fiorino di Firenze, in quanto moneta internazionale divenire, già nella seconda metà del XIII secolo, una delle specie monetarie più imitate e falsificate. Il fiorino venne palesemente imitato da molte zecche italiane (tra cui quella dei Savoia e quella di Savona) e straniere (dalla Spagna alla Francia e dalla Germania all’Austria fino Polonia, all’Ungheria e alla Grecia). Numerosi stati e libere città produssero inoltre, soprattutto nel XIV secolo, monete fiorentine “ibride” non limitandosi a copiare il pregiato nominale in oro, ma estendendo anche alla moneta in mistura questa pratica di imitazione che vide i gigli di Firenze fiorire, qua e là, su emissioni di tutto il continente. A differenza delle vere e proprie imitazioni, tuttavia, gli ibridi di monete fiorentine presentano, accoppiata al giglio di Firenze o al San Giovanni, una seconda faccia autoctona e originale come è il caso del fiorino d’oro emesso all’inizio del XIV secolo dal Senato Romano.

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Imitazione aragonese del fiorino fatta coniare da re Martino I (1396-1410) | mm 20,2 – g 3,39
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Imitazione del fiorino coniata dalla libera città di Lubecca (Germania) dopo il 1343 | mm 20,7 – g 3,54

A coniare imitazioni del fiorino furono soprattutto gli stati e le autorità al di fuori dell’area di influenza del ducato veneto che tendevano, in tal modo, a ricavare un guadagno immettendo in circolazione monete di titolo e peso calanti rispetto all’originale. L’idea, evidentemente, ebbe successo viste le 160 imitazioni del fiorino, prodotte da ben 50 zecche diverse, che differiscono dall’originale solo per la leggenda e i simboli. Questo fenomeno, assai marcato nel 1300, si affievolì poi nel secolo successivo, a causa della progressiva perdita di importanza delle moneta e delle compagnie mercantili fiorentine cessando, infine, nel XVI secolo.

A Firenze, intanto, già dall’epoca di Cosimo I (prima metà del XV secolo) il potere politico e amministrativo si era consolidato nelle mani dei Medici che ebbero in Lorenzo il Magnifico, fine umanista, amante delle arti ed egli stesso poeta, il loro rappresentante più conosciuto.

Nel 1531, dopo un lungo periodo di signoria “de facto” , i Medici ricevettero dall’imperatore Carlo V la definitva investitura: creati dapprima duchi e, in seguito, granduchi di Toscana, i Medici accompagnarono così l’ultimo periodo di vita del fiorino che, nel 1530, si vide affiancare nella monetazione fiorentina dal nominale che, di lì a poco,lo avrebbe soppiantato: lo scudo d’oro, del peso di 3,4 grammi per un titolo di 22 carati e mezzo (937,5 millesimi), coniato sul modello dell’ ”écu d’or au soleil” francese.

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Ritratto di Lorenzo il Magnifico (dipinto di Giorgio Vasari, XV secolo) e fiorino ibrido coniato dal Senato Romano attorno al 1305 | mm 19,2 – g 3,50

Il fiorino di Firenze sopravvisse, in effetti, ben oltre il 1533 (anno in cui ne venne abbandonata la coniazione) restando in circolazione in Italia e nel resto d’Europa per molti decenni al punto che, nel 1595, il granduca Ferdinando I de Medici fece coniare una nuova moneta, il “ducato gigliato” che, dal punto di vista iconografico, richiamava il glorioso fiorino repubblicano ma che, putroppo, non ebbe altrettanta fortuna e mutò in seguito il proprio nome in “zecchino gigliato”.

Ancora nel XVII, XVIII e XIX secolo vennero prodotte, presso la zecca granducale, monete d’oro con le caratteristiche metrologiche e la denominazione di fiorino ma si trattò, a differenza di quelle delle origini, di emissioni che non ebbero nessuna particolare importanza nel panorama monetario internazionale.

Gli ultimi esemplari in assoluto di fiorino d’oro furono coniati, a nome del granduca Leopoldo II di Lorena, nel corso del 1853; anche queste monete raffiguravano il giglio di Firenze e San Giovanni Battista ed avevano all’incirca le stesse caratteristiche metrologiche dei fiorini medievali (3,45 grammi di oro puro per un diametro di 22 millimetri). Seppur pregevoli dal punto di vista estetico, tali emissioni rappresentarono poco più che un ultimo, nostalgico tentativo, di restituire al Granducato di Toscana un po’ della gloria dei tempi d’oro, di quei secoli in cui la moneta e il potere economico di Firenze valevano ben più dell’estensione territoriale dello stato toscano o della forza dei suoi eserciti.

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1725 – Fiorino a nome di Gian Gastone de’ Medici granduca di Toscana (1723-1737) | mm 21,2 – gr3,47

Quello che in molti hanno definito “il dollaro del medioevo” fu dunque, nei quasi tre secoli della sua esistenza, una moneta stabile e longeva, nella quale un intero continente ripose a lungo fiducia e che seppe sopravvivere e prosperare anche quando l’economia e il governo di Firenze si trovavano in difficoltà, a causa di guerre ed epidemie o per le lotte interne tra Guelfi e Ghibellini (sostenitori, rispettivamente, del papa e dell’imperatore). Il fiorino dominò incontrastato la scena monetaria, rendendo inutile la coniazione di multipli e sottomultipli (il quarto di fiorino e il doppio fiorino furono, infatti, poco più che esperimenti) e mantenendo stabile il proprio valore intrinseco mentre la lira scivolava sempre più in basso, affossata dalla svalutazione della lira di conto. A testimonianza di ciò basti ricordare che il fiorino d’oro, equivalente ad una lira nel 1252, già nel 1295 ne valeva oltre due, tre nel 1319, quattro nel 1409 e così via, fino alle quasi sette lire e mezzo del 1533.

Oggi, a sette secoli e mezzo dalla sua prima battitura, del fiorino d’oro di Firenze e della sua storia restano ancora numerose e importanti testimonianze, dagli esemplari conservati nei musei e nelle collezioni private alle migliaia di documenti che ne testimoniano l’utilizzo mercantile, il successo, il declino.

E’ doveroso ricordare, tra questi, il “Libro della Zecca” o “Fiorinaio”, maestoso manoscritto che, in 232 grandi pergamene, riassume l’attività dell’officina monetaria toscana a partire dal 1317 riportando impronte e informazioni su “quattrini” , “grossetti” , “grossi guelfi” ed ogni altra specie di moneta coniata a Firenze. Dallo studio del “Fiorinaio” e delle altre fonti d’archivio apprendiamo, ad esempio, che solo nel semestre dal novembre 1350 all’aprile 1351, vennero battuti quasi 204.000 fiorini d’oro e che ogni giorno, nei palazzi dell’Arte di Calimala e del Cambio, venivano aggiornate e affisse al pubblico le quotazioni ufficiali della moneta d’oro. La dote di una giovane benestante ammontava, nel XV secolo, a circa 2.500 fiorini (pari allo stanziamento annuo del Comune per l’università) mentre, in appena quattro decenni dello stesso secolo, i Medici spendevano oltre 600.000 fiorini per costruire la propria gloria e consolidare il proprio potere.

Il fiorino e la ricchezza che esso riuscì a produrre rappresentarono, dunque, i motori propulsivi della Firenze del tardo medioevo e del rinascimento permettendo fra l’altro, all’aristocrazia e al ricco ceto mercantile, di trasformarsi in mecenati e di chiamare a Firenze quegli architetti e quegli artisti (tra i quali Michelangelo, Brunelleschi e Botticelli) che ci avrebbero lasciato dipinti, sculture e palazzi meravigliosi. Questi fatti e queste cifre, più di ogni altra considerazione, rivelano come il fiorino d’oro di Firenze era divenuto, per la città toscana come per buona parte dell’Europa, la misura di ogni cosa e come la storia degli uomini e degli stati, attraverso di esso, giorno dopo giorno si costruiva e si raccontava.

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Scudo d’oro “del sole” coniato da Alessandro de Medici (1532-1536) | mm 26,0 – g 3,40

Appendice – Gli altri fiorini di Firenze | Il nome “fiorino”, a differenza di quanto si potrebbe pensare, non nasce con l’emissione del pregiato nominale aureo di Firenze, ma risale già ad alcuni decenni prima quando in città, aperta la zecca, venne decretata l’emissione di ”fiorini in argento” del valore di un soldo (12 denari). Caratterizzate dal giglio di Firenze e dal mezzo busto di San Giovanni, queste emissioni pesavano 1,60-1,80 grammi per un diametro di 18-19 millimetri e, all’inizio del XVI secolo, vennero sostituite dai fiorini “popolini”, leggermente più pesanti e, dal punto di vista estetico, piuttosto simili ai fiorini d’oro.

Tra le monete in mistura, il “fiorino picciolo” e il “fiorino piccolo nero” vennero emesse nel corso del trecento affiancando, nella monetazione della repubblica di Firenze, ”grossi guelfi”, ”grossetti”, “quattrini” e “soldini”. Scomparso con l’avvento del Granducato di Toscana, il fiorino d’argento (stavolta del valore di 100 quattrini) viene emesso di nuovo nella prima metà del XIX secolo a nome di Leopoldo II di Lorena (tra il 1826 ed il 1858) e, infine, dal Governo Provvisorio della Toscana che, nel 1859, amministrava i territori del granducato in attesa dell’annessione al Regno di Sardegna e della proclamazione del Regno d’Italia.

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1406 – I Semestre – Grosso guelfo da 5 soldi e 6 denari | Argento – mm 23,2  – g 2,50 | Armetta dello zecchiere Giovanni Bicci de Medici, padre di Cosimo I “pater patriae”
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Fiorino in argento da 100 quattrini del Governo Provvisorio di Toscana coniato nel 1859 | mm 24,0 – g 6,88