“VESTIVAMO ALLA BIZANTINA”:
L’ABBIGLIAMENTO DEI DOGI DI VENEZIA
DALLA BOLLA AL GROSSO

(di Luca Mezzaroba) | La figura del doge (o duca) di Venezia costituisce uno degli aspetti più noti della storia della città lagunare: l’importanza di questa istituzione era già stata colta dai più antichi cronisti, i quali avevano identificato in essa il punto di riferimento più importante per la stabilità e la giustizia dello Stato e questo atteggiamento continuerà, immutato, per la storia millenaria della Serenissima Repubblica. È interessante notare però che riguardo l’iconografia ducale, le vesti, le insegne del potere e le modalità di elezione dei dogi, mentre siamo ben informati a partire dalla seconda metà del XIII secolo, tra il IX e il XII secolo invece le informazioni sono molto più scarse e di difficile decifrazione.

In effetti risalgono solo alla seconda metà del Duecento le prime raffigurazioni di dogi presenti nei mosaici della basilica di San Marco, secondo un modello che verrà esaltato nella pittura e nella medaglistica del Cinquecento e che rimarrà immutato sino alla caduta della Repubblica nel 1797.  Per il periodo più antico della storia di Venezia non vi sono testimonianze musive o figurative coeve, tuttavia un aiuto fondamentale viene dalla sfragistica e dalla numismatica, vale a dire da alcune preziose bolle plumbee conservate presso alcuni musei di Roma (Museo nazionale del Palazzo di Venezia), Torino (Medagliere di Palazzo Madama) e Venezia (Museo Correr) e dal celebre grosso, emesso per la prima volta sotto il ducato di Enrico Dandolo.001

Guardando per prima cosa alle bolle di piombo, esse sono presenti almeno dal ducato di Pietro Polani (1130-1148) e rappresentano i dogi coevi mentre ricevono le insegne del potere nei loro abiti pubblici. Tali raffigurazioni non risultano importanti solo per comprendere i mutamenti della veste ducale, ma anche perché confermano l’evoluzione delle cerimonie di elezione dei dogi e mettono in luce le trasformazioni che subirono le loro insegne nel cruciale periodo che trasformò Venezia da ducato soggetto a Bisanzio a comune totalmente autonomo.

Nonostante l’iconografia rimanga sostanzialmente immutata fino al ducato di Ranieri Zeno (1253-1268), tra la prima metà del XII secolo e la seconda metà del XIII secolo è possibile distinguere tre fasi diverse nella produzione dei sigilli; queste variazioni, che riguardano in modo particolare i vestiti e la posizione dei personaggi nel dritto del sigillo, non interessano invece il rovescio, il quale riporta semplicemente il nome e i titoli del doge.

I primi sigilli, da quello del già citato Pietro Polani a quello di Domenico Morosini (1148-1156) fino ad arrivare a quello di Sebastiano Ziani (1172-1178) presentano in realtà gravi problemi di conservazione, questo rende perciò difficile un’accurata analisi della figura del doge e dei suoi abiti; a tale complessità si sommano l’assenza di sigilli durante il ducato di Vitale II Michiel (1155-1172). Questo ha fatto ipotizzare ad Agostino Pertusi, uno dei massimi studiosi della storia di Venezia, che l’iconografia di questo doge potesse essere diversa da quella usuale (cfr. A. Pertusi, “Quedam regalia insigna. Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il Medioevo”, in “Studi veneziani a cura dell’Istituto di storia della società e dello stato veneziano e dell’istituto ‘Venezia e l’Oriente’ della fondazione Giorgio Cini”, 7 (1965), pp. 26-27).

In ogni caso, in questa prima fase, il dritto del sigillo presenta san Marco a destra e il doge a sinistra: il Santo, a capo scoperto e nimbato, è seduto in trono, veste abiti vescovili e con la mano sinistra tiene il Vangelo appoggiato al ginocchio; con la mano destra invece stringe una lunga asta che sta consegnando al doge. Quest’ultimo, secondo Pertusi, appare “con abito talare, a pieghe o con ricami verticali, stretto ai fianchi da una cintura che provoca un leggero rigonfiamento, con maniche lunghe e aderenti” in piedi e stringe l’asta con la mano sinistra; entrambi i personaggi sono identificabili grazie alla iscrizioni presenti nel campo e lungo l’asta. Solo nella bolla di Sebastiano Ziani sembra possibile riconoscere cosa tenga il doge nella mano destra stretta al petto: dovrebbe trattarsi della pergamena (“volumen”) della promissione ducale, primo segnale (apparso proprio in quegli anni) della trasformazione di Venezia in Comune. Anche per l’asta, sembra ormai certa la sua identificazione con il vessillo del ducato e non con un lunghissimo scettro. Se così fosse, l’iconografia del sigillo confermerebbe l’avvenuta trasformazione, di cui parlano le fonti coeve (la testimonianza del contemporaneo piovano Antonio de Faustinis è riportata ibidem, p. 72) della cerimonia di incoronazione, per cui proprio Sebastiano Ziani, nel 1172, ricevette dal primicerio di San Marco il vessillo del ducato prima di essere accompagnato a palazzo.002

Nel XII secolo, infatti, l’investitura, detta appunto “per vexillum”, aveva ormai sostituito le più antiche incoronazioni di netto stampo bizantino. Quando Domenico Selvo era stato eletto nel 1071, infatti, aveva ricevuto solo lo scettro (“baculus”) ultimo ricordo delle tre insegne, rispettivamente spada, scettro e trono, con cui era stato investito Pietro I Candiano nell’887. Nonostante il nuovo tipo di incoronazione, sarebbe sbagliato ritenere che nulla di bizantino fosse rimasto nella figura del doge di Venezia: come si vedrà, ancora all’inizio del XIII secolo, il bizantinismo (così gli studiosi tendono a definire l’influenza di Costantinopoli sul mondo veneziano) era ancora forte, non solo nella foggia degli abiti e nelle insegne ducali, ma anche nell’iconografia utilizzata per sigilli e monete.

I sigilli di Orio Mastropiero (1178-1192) ed Enrico Dandolo (1192-1205), appartenenti alla Collezione Papadopoli, conservata presso il Museo Correr di Venezia, permettono un’analisi accurata delle insegne e degli abiti ducali grazie alla loro discreta conservazione: la figura di San Marco, seduto in trono in abiti vescovili, non presenta grossi mutamenti rispetto ai modelli precedenti, è però da notare una maggiore precisione nella realizzazione delle vesti e la probabile presenza di perle che le arricchiscono. La figura ducale presenta invece alcuni cambiamenti: sia Orio Mastropiero che Enrico Dandolo impugnano l’asta del vessillo (e proprio di vessillo si tratta, dato che la bandiera rivolta a sinistra è ben visibile) con la mano destra e non con la sinistra. Entrambi stringono la pergamena della promissione e indossano abiti diversi da quelli, abbastanza stereotipati, dei loro predecessori. La veste, sempre talare e aderente, è stretta da una cintura adorna di pietre preziose, al collo portano un ornamento, anch’esso decorato, e sulle spalle indossano un mantello fluttuante che ricade, stretto dalla cintura, sul davanti; in capo hanno sicuramente un berretto dalla forma arrotondata tuttavia, specialmente nella bolla del Dandolo, è molto difficile capire se si tratti di un primo esempio di “corno” ducale con il tipico “camauro” o semplicemente dei capelli lunghi.

Che questi abiti fossero realmente quelli indossati dai dogi tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, sembra confermato da alcune importanti quanto rare testimonianze artistiche: i mosaici della parete del transetto sud, nella chiesa di San Marco, e la lunetta sopra la porta di Sant’Alipio, sempre a San Marco.

Pur narrando eventi molto più antichi (rispettivamente il miracoloso ritrovamento del corpo del santo nel 1094 e l’arrivo da Alessandria delle sue spoglie nell’828) essi ritraggono di fatto l’abbigliamento ducale del loro tempo (XIII secolo). Grazie a queste testimonianze è possibile confermare la chiara derivazione dell’abito ducale da modelli bizantini: la veste talare, azzurra nel mosaico dell’“Apparizione delle spoglie di San Marco”, ricorda da vicino lo “skaramangion” indossato dai dignitari costantinopolitani, il mantello cremisi e i polsini delle maniche (poco chiari nelle bolle, ben visibili nei mosaici) fanno pensare al “sagion” (mantello corto) e agli “epimanikia” (bracciali) portati dai bizantini mentre la cintura (“cingulum”) e il ricco collare (“maniaci”) sono rispettivamente le insegne del servizio pubblico e del titolo di “protospatharios” (che i dogi veneziani ricevettero da Bisanzio fin dal IX secolo).003

Per quanto riguarda il berretto, nella forma ricorda uno “skiagion” bizantino (berretto tondo); tuttavia se nei mosaici del transetto sud esso è di colore rosso e ornato da un cerchio d’oro e smeraldi, quello del doge nella lunetta sopra l’antichissima porta di sant’Alipio (l’unica originale della facciata di San Marco) è giallo e presenta già il “camauro” bianco; quest’ultimo particolare, unito alla grande ricchezza della veste lilla e dorata e del mantello rosso (che non ricade più sul davanti, come avveniva nelle bolle e nei mosaici precedenti) fa ritenere che questa iconografia sia da attribuire ad un periodo di poco posteriore, che coincide con le bolle di Jacopo Tiepolo e dei suoi successori.

Dal sigillo del Tiepolo (1229-1249), infatti, le figure di san Marco e del doge (sempre identificate dalla scritte nel campo) subiscono un’ulteriore trasformazione: il santo non è più a capo scoperto ma indossa la mitra, inoltre le sue vesti e il trono si arricchiscono ulteriormente. Il doge, con la mano molto vicina a quella del santo, tiene ancora il vessillo, che doveva essere azzurro, data la somiglianza con quelli raffigurati nei mosaici della cappella di Sant’Isidoro a San Marco. Egli indossa una veste talare ornata con ricami e arabeschi e il mantello, che cade dritto fino ai piedi, sembra riccamente decorato, al contrario della cintura. Particolarmente interessante risulta la posizione della mano sinistra, che stringe al petto il rotolo della promissione ducale; tale posizione è identica a quella assunta dal doge nel mosaico della lunetta sopra la porta di sant’Alipio. Quest’iconografia rimarrà immutata fino a Ranieri Zeno (1253-1268), quando verrà sostituita da quella più consueta raffigurante sia il doge che san Marco in piedi, il primo con in capo il “corno” e il “camauro”, il secondo con il Vangelo aperto; tale rappresentazione va quindi ad adeguarsi a quella presente nelle monete.004

Proprio riguardo alle monete vale la pena di riportare l’accurata descrizione proposta da Papadopoli del dritto del grosso di Enrico Dandolo, la prima moneta veneziana che ritrae la figura ducale. “S. Marco a destra ritto in piedi, cinto il capo di aureola, col libro dei Vangeli nella mano sinistra, consegna colla destra al Doge un vessillo con asta lunghissima, che divide la moneta in due parti pressoché uguali. A sinistra il Doge, vestito di ricco manto ornato di gemme, tiene colla sinistra un volume, rotolo, che rappresenta la promissione ducale, e colla destra regge il vessillo, la cui banderuola colla croce è volta a sinistra. Entrambe le figure sono di faccia” (Cfr. N. Papadopoli, “Enrico Dandolo e le sue monete”, in “Rivista italiana di numismatica e scienze affini”, III (1890), p. 515).005

Molto si è scritto su questa moneta d’argento e sulla sua enorme fortuna (specialmente nei mercati bizantini e orientali) dalla sua prima coniazione, avvenuta a Venezia prima del 1202, fino alla metà del secolo successivo. Tornando all’iconografia del grosso, basterà ricordare che già il Papadopoli aveva notato la grande affinità di questa moneta con quelle bizantine dello stesso periodo; eloquente può risultare il confronto con l’aspron trachy di Isacco II Angelo (1185-1195) qui proposto. Sembra paradossale che Dandolo, che condusse la quarta crociata al sacco di Costantinopoli (1204) abbia voluto ispirarsi a modelli bizantini per le sue monete, e che questi modelli siano rimasti pressoché invariati attraverso anni in cui l’Impero d’Oriente viveva il suo lento declino politico e militare, tuttavia la presenza di tali elementi è evidente. Tralasciando alcuni caratteri occidentali (come il vessillo e i capelli lunghi del doge), la presenza di due personaggi affiancati e divisi da un elemento verticale nel dritto, la raffigurazione del Cristo Pantokrator nel rovescio e, soprattutto, l’incoronazione simbolica del santo (che a Bisanzio era sostituito dalla Vergine o da san Michele) confermano questa tesi. Poco importa quindi se Enrico Dandolo, nel grosso, non porta il “maniaci” né il berretto tondeggiante: la base dell’iconografia rimane, e rimarrà a lungo, chiaramente bizantina. Ancora con il ducato di Marino Morosini (1249-1253) il grosso mantiene la stessa iconografia e persino nel XIV secolo, quando appariranno i cosiddetti grossi di “secondo tipo” e poi di “terzo tipo” di Antonio Venier (1382-1400) con il doge di profilo con “camauro” e “corno” ducale, non avrà cambiato nulla delle linee guida originarie.006Anche nelle monete e nei sigilli, quindi, Venezia adotta ciò che aveva già fatto suo nella politica, nell’arte e nella cultura, guardare a Bisanzio come grande modello di vita ma assumendo progressivamente caratteri e forme proprie. Così san Marco, il Santo “dello Stato” che ha sostituito il greco Teodoro, viene affiancato al doge, così la spada, da insegna dello “spatharios”, generosamente concessa dall’imperatore ai duchi veneziani, viene abbandonata, ma non dimenticata, e compare nelle numerose raffigurazioni artistiche successive, non più nelle mani del doge ma in quelle di un membro del suo seguito.