Teche GdN: IL BARILE,
UNA MONETA NELLA FIRENZE DEL ‘500

(di Roberto Tomassoni | dal “GdN” n. 29 di giugno 2014, pp. 22-29) | La nascita del barile | Siamo a Firenze, è il 2 agosto del 1504. Nella provvisione di zecca viene dato ordine di coniare una moneta d’argento che in seguito prenderà il nome di barile poiché, come scrive lo storico Benedetto Varchi nella sua “Storia fiorentina”, “tanto paga di Gabella un Barile di vino a entrare in Firenze, i quali Gabellotti ovvero Barili si chiamavano già Battezzoni perché dove tutte l’altre monete fiorentine hanno ordinariamente da un de’ lati un giglio, arme del comune di Firenze, e dall’altra un’impronta di san Giovambatista semplicemente, questi hanno un san Giovambatista che battezza Gesù Cristo”. La moneta valeva soldi 12 denari 6 piccioli e pesava g 3,51 ad una lega (chiamata del “popolino”) di 958,333 millesimi con un fino di g 3,37. Questa moneta, dunque, serviva per pagare la gabella sul vino (un barile appunto) quando si entrava in città.

Ecco, nel dettaglio, il passo della legge tratto dal libro della zecca di Firenze: “[…] si vede manifestamente che, al tempo delle richolte del vino et dell’olio, qualche volta, per la moltitudine de’ vecturali et altri che a uno tratto si riduchono alle porti per pagare, soprastanno maxime quando s’hanno a contare quattrini, et qualche volta si piglia errore, quando in danno del publicho et quando del privato; et quando si facessi una nuova moneta d’ariento, che a punto pigliassi quello si pagha per uno barile di vino et le due uno barile d’olio, ne seguirebbe commodità et utile al publicho et al privato, et similmente negli altri pagamenti si facessino di tali monete […]”. Il problema era che la gabella sul vino (e sull’olio) veniva pagata utilizzando monete picciole, cioè di piccolo taglio spesso usurate o tosate e quindi difficili da contare, tanto che spesso si creavano disagi ed errori di conto, a volte a danno del Comune altre a danno del privato. Si decise, dunque, di porvi rimedio e si deliberò “Che nella detta zeccha si batta et battere si debba una nuova moneta d’ariento fine a legha di grossoni Fiorentini, chiamati grossoni overo charlini, che vaglia l’uno soldi dieci di quattrini bianchi, et così si spendino”. La moneta, dunque, venne inizialmente chiamata carlino e notiamo da subito come nel panorama monetario dell’epoca quei “charlini” non rappresentassero una novità. Proviamo a tornare indietro di un paio di secoli.

Nel 1278 Carlo I d’Angiò (1266-1285), nel Regno di Napoli, faceva coniare il saluto d’argento. Il nome deriva dalla raffigurazione dell’annunciazione rappresentata al dritto. Al momento della sua nascita il saluto pesava g 3,34 ad una lega di 934 millesimi, con un fino di g 3,08. Dal 1303 con Carlo II d’Angiò (1285-1309) la moneta prenderà il nome di gigliato per la croce gigliata impressa al rovescio. In seguito verrà chiamato carlino (dal nome Carlo). La moneta ebbe notevole successo tanto che anche Roma coniò il gigliato/carlino a partire dal pontificato di Martino V (1417-1431). Dopo il 1503 la moneta romana assumerà il nome di giulio in onore di papa Giulio II (1503-1513), mentre dal pontificato di Paolo III (1534-1549) prenderà il nome di paolo.

Il carlino di Firenze, dunque, non era altro che la versione fiorentina di queste monete. Gli intensi rapporti commerciali che Firenze intratteneva con Roma e Napoli necessitavano evidentemente di una moneta dalle comuni caratteristiche. Un’ulteriore conferma di quanto affermato ci è fornita dalla provvisione di zecca del 27 ottobre 1509. In essa, tra le altre voci, viene indicata la valuta delle monete italiane all’interno del territorio di Firenze. Tra queste è presente il “carlino di papa” del valore di soldi 10, lo stesso del carlino fiorentino.

La legge del 1504 ci conferma che l’aspetto del carlino corrispondeva alla descrizione fornita dal Varchi: “[…] et da uno de’ lati habbino uno giglio et, dall’altro lato, habbino uno san Giovanni ritto, che battezzi Cristo”. Ma quando in effetti il carlino prese a chiamarsi barile? Non abbiamo una provvisione di zecca che ce lo indichi, quindi è probabile che si sia trattato di una convenzione, essendo la moneta utile a pagare la gabella per un barile di vino. In ogni caso il barile venne ufficialmente menzionato a partire dalla coniazione del primo semestre 1506. Nel passaggio dal carlino al barile la moneta mutò alcune caratteristiche: mentre nel carlino lo stemma del zignore della zecca era posto in basso tra il San Giovanni e il Cristo, nel barile lo stemma passò, come era consueto nelle monete fiorentine, in alto a sinistra. Inoltre si modificò la legenda del rovescio: (1) carlino (dal 1504), *S*IO*BAP | TIZANS*; (2) barile (dal 1506), *S*IOAN | NES*B*. A dimostrazione del fatto che la sua emissione non fu né temporanea né effimera nel 1534 Alessandro de’ Medici, la cui famiglia nel 1531 era tornata al potere a Firenze dopo l’ultima parentesi repubblicana, decretava che si ponesse termine alla coniazione del grosso e fece del barile il perno del sistema monetale argenteo fiorentino.

A sinistra, saluto d’argento (mm 25), Carlo I d’Angiò (1266-1285) zecca di Napoli. Ex asta Stack’s Bowers & Ponterio 177, 2013, 34977; a destra, gigliato (mm 28), Roberto d’Angiò (1309-1343) zecca di Napoli. Ex asta Emporium Hamburg 70, 2013, 807 

Come abbiamo visto al carlino/barile fu assegnato il valore di soldi 12 denari 6 piccioli. Nella provvisione di zecca leggiamo, tuttavia, che la moneta doveva spendersi per soldi 10 di quattrini bianchi. Per fare chiarezza su quest’apparente contraddizione occorre partire dalla riforma monetaria di Carlo Magno del 794: allora Carlo decretò che da una libbra (poi chiamata lira) di peso di circa g 410 di argento dovevano essere ricavati 240 denari, pari a 20 soldi, per cui 1 soldo valeva 12 denari. Nel contesto della stessa riforma si portò il peso del denaro da g 1,3 g a 1,7 (per ottenere tale peso la libbra doveva necessariamente pesare circa g 410 quindi è probabile, tenuto conto della precisione approssimativa dell’epoca, che il peso del denaro effettivo oscillasse tra g 1,6 e 1,7).

La lega del denaro (e quindi della libbra/lira), ovvero la quantità di argento presente in ogni moneta, era di 950 millesimi pari a g 1,6 circa per un denaro che pesasse g 1,7. Lo schema era il seguente: 1 lira = 20 soldi  = 240 denari; 1 soldo = 12 denari. L’unica moneta effettiva era il denaro, mentre lira e soldo erano monete di conto. In buona sostanza si conteggiava in lire e soldi pur maneggiando soltanto denari. Per acquistare un terreno non occorrevano 500 denari, ma 2 lire 1 soldo e 8 denari.

Sette secoli più tardi il sistema era il medesimo. Con due differenze: la lira era stata finalmente coniata a partire dal 1472 a Venezia (seguita da Milano nel 1474) e il denaro non aveva più un fino di 950 millesimi, ma nel corso dei secoli era stato progressivamente e pesantemente svalutato. Si era deciso quindi di coniare multipli del denaro stesso per frenare la svalutazione della moneta d’argento e creare monete in grado di sostenere il piccolo e medio scambio. Nel nostro caso occorre, dunque, fare una breve digressione sulla moneta fiorentina di biglione, cioè con una lega d’argento molto bassa. Al momento dell’entrata in scena del barile a Firenze circolavano queste monete: (1) crazia = 20 denari piccioli (4 quattrini bianchi o 5 quattrini neri); (2) quattrino bianco = 5 denari piccioli; (3) quattrino nero = 4 denari piccioli; (4) mezzo quattrino = 2 denari piccioli; (5) picciolo.

Carlino (mm 26), Martino V (1417-1431) zecca di Avignone. Ex asta Aureo Calicò 254, 2013, 2022

Per quanto riguarda il mezzo quattrino del valore di 2 denari piccioli esso è presente nella provvisione di zecca del 2 agosto 1504: “Atteso come da non molti anni proxime passati in qua, nella detta zeccha s’è battuto buona quantità di monete, cioè grossoni et grossi di quattro l’uno, et mezzi quattrini et quattrini grossi bianchi […]”. Il riferimento che qui ci interessa è ai mezzi quattrini. Si tratta tuttavia di un’ipotesi, come evidenziato dal Bernocchi, priva di ulteriore documentazione, mentre sappiamo che il picciolo era il denaro di antica tradizione contenente, dopo secoli di svalutazione, un’infima quantità di argento essendo per la maggior parte in rame e di piccolissime dimensioni. Di qui il nomignolo.

Proseguiamo con il nostro ragionamento. Il Varchi ci informa che 1 soldo equivaleva a 3 quattrini bianchi (lo stesso sottolinea che “de’ soldi non s’è battuto mai ch’io sappia.” E che “delle lire, ch’io mi ricordi, non se ne batté mai.” Siamo nel 1529!). Se riprendiamo il sistema di valori del barile troviamo che la sua valuta doveva essere di soldi 10 di quattrini bianchi. Noi l’abbiamo tradotto in soldi 12 denari 6 piccioli. Tenendo sempre presente che 1 soldo equivaleva a 12 denari piccioli avremo: (1) 1 soldo =  3 quattrini bianchi; (2) 10 soldi di quattrini bianchi  =30 quattrini bianchi = 150 denari piccioli, pari a 12 soldi e 6 denari piccioli. La testimonianza del Varchi, coeva alle monete che ci descrive, non può che essere degna di fede. Anche il barile, come il carlino due secoli addietro, esportò il proprio successo. Fu infatti imitato da Francesco Maria I Della Rovere, nipote di Guidobaldo da Montefeltro duca di Urbino e designato da quest’ultimo a succedergli alla guida del ducato, per cui la moneta prese il nome di barile feretrano. Il valore del barile rimase stabile fino al 1530.

Una bella veduta della città di Firenze stampata a Norimberga nel 1493

Il quadro storico | Dopo la morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492 il suo successore, Piero de’ Medici, non riuscì a mantenere l’equilibrio del sistema come abilmente aveva fatto suo padre. Piero fu costretto ad abbandonare Firenze nel 1494 colpevole, in ultima istanza, di aver consegnato la città nelle mani dei francesi di Carlo VIII e di essersi inimicato buona parte delle famiglie aristocratiche (volendo definire tali coloro che detenevano il potere, ovvero banchieri, commercianti ecc…) di Firenze. Venne instaurata la Repubblica con una compartecipazione popolare più ampia delle faccende di governo e soprattutto con la carismatica presenza di fra Girolamo Savonarola, abile nel propugnare un rinnovamento tanto politico quanto religioso. La religiosità politica del frate, tuttavia, si dimostrò alla lunga inadeguata. Il governo popolar-religioso fu osteggiato dall’opposizione aristocratica che ebbe buon gioco nello sfruttare la scomunica di papa Alessandro VI verso il Savonarola, colpevole di volere una Chiesa meno attenta al potere secolare, e condurre il frate all’impiccagione e poi al rogo nel 1498. Si istituì il gonfalonierato a vita (“el gonfaloniere di giustitia del popolo fiorentino si ebbi deputare ad vita”) affidato a Piero Soderini. Nel frattempo il cardinale Giovanni de’ Medici, attraverso un’abile politica matrimoniale, creava un efficace sistema di alleanze con le principali famiglie aristocratiche fiorentine preparando, di fatto, il ritorno dei Medici a Firenze. Di nuovo i contrasti con Roma virarono verso il cambiamento. La politica estera fiorentina di stampo filofrancese e la convocazione di un concilio a Pisa (il cui territorio era soggetto a Firenze) nel 1511, voluto da Luigi XII di Francia per intimidire Giulio II con la minaccia di uno scisma, indussero il pontefice ad accordarsi con il cardinale de’ Medici per il ritorno della famiglia a Firenze. Che avvenne il 1° settembre 1512. L’elezione di Giovanni de’ Medici al soglio pontificio con il nome di Leone X (1513-1521) consolidò i rapporti tra Firenze e Roma. Ovviamente la prima a beneficiarne fu la famiglia Medici, ma non meno le altre famiglie legate all’entourage mediceo. Anche l’attività bancaria ne trasse notevole beneficio tanto che durante il pontificato di Leone X furono presenti presso la curia non meno di trenta banche fiorentine.

Dopo la morte di Leone un altro papa Medici salì al soglio pontificio nel 1523. Era il cardinale Giulio, la cui nomina era stata caldeggiata da Carlo V. Giulio prese il nome di Clemente VII (1523-1534). Le sue scelte politiche contribuiranno a portare i Medici nuovamente lontano da Firenze. Mentre, dunque, in politica estera (intesa come esterna allo stato fiorentino) la situazione stava per precipitare Firenze rischiava nuovi disordini. Dopo l’elezione di Giulio al pontificato il controllo della città era stato affidato a Silvio Passerini, cardinale di Cortona, per la minore età di Ippolito e Alessandro eredi della dinastia. La nomina di un forestiero aveva creato malcontento in seno all’aristocrazia tanto più che Passerini, seguendo nientemeno che le istruzioni provenienti da Roma, era costretto ad imporre tasse elevate. Le famiglie più potenti (Salviati, Capponi, Strozzi) organizzarono, quindi, una forte opposizione contro i Medici così come era avvenuto nel 1494. E fu allora che ai problemi interni si sommarono gli avvenimenti esterni. Clemente VII strinse un’inopportuna alleanza con Francesco I di Francia, tradendo la fiducia di Carlo V che aveva favorito la sua elezione al soglio pontificio. La sconfitta del re francese a Pavia nel 1526 non persuase il papa ad una politica più accorta. Una volta liberatosi della prigionia spagnola Francesco riprese le armi e il papa si alleò nuovamente con lui. La Lega di Cognac che vide alleati Roma, Venezia e Francesco I precipitò gli eventi. Il 6 maggio 1527 i Lanzichenecchi di Carlo V entrarono a Roma e la saccheggiarono. L’evento diede il decisivo fiato alle trombe dell’opposizione. Cavalcando l’onda di un pericolo imminente anche per Firenze a causa della scriteriata politica di Clemente VII, gli oppositori costrinsero nuovamente i Medici ad abbandonare la città sull’Arno.

A sinistra, giulio (mm 29), Giulio II (1503-1513) zecca di Roma. Ex asta Nomisma 48, 2013, 978; a destra, paolo (mm 26), Paolo III (1534-1549) zecca di Macerata. Ex asta Nomisma 48, 2013, 1027

Questo breve excursus storico, che non ha la pretesa di essere esauriente, credo possa essere utile per comprendere la situazione alla vigilia del definitivo rientro dei Medici che avvenne nel 1531. Riprendiamo brevemente la cronaca degli avvenimenti. Nel 1529 Clemente VII stipulò l’accordo di Barcellona con Carlo V. In esso era previsto, tra le altre condizioni, proprio il ritorno dei Medici a Firenze. E Carlo V prestò fede al trattato. Il 30 agosto 1529 la Repubblica inviò quattro ambasciatori a Genova, dove nel frattempo era giunto l’imperatore, nella speranza di trovare un accordo, che tuttavia non giunse. Agli inizi del 1530 la città era circondata dall’esercito imperiale. C’era la carestia: “In Firenze si cominciava a patire, anzi di già stranamente si pativa di companatico, e specialmente di carnaggio”, a cui s’aggiunse la peste “I Fiorentini, ancoraché si trovassero allo stremo di tutti i beni, mancando loro quasi ogni cosa, e nel colmo di tutti i mali […] s’era aggiunta […] la peste”. Nei dintorni di Firenze si continuava a combattere, ma la maggior parte del territorio era ormai perduto e i fiorentini erano ridotti alla fame.

La svalutazione | L’argento doveva scarseggiare e l’oro con esso. Si coniarono nuove monete d’oro e d’argento rastrellando tutto il metallo possibile: “s’ottenne […] una legge mediante la quale tutti gli argenti e tutti gli ori non coniati che si trovavano per le case, e non solo de’ cittadini, ma di tutti gli abitanti in Firenze, eccetto i soldati, e medesimamente quelli di tutti i luoghi sacri, lasciati solamente i necessari al culto divino, si mandassero…in zecca”. Nonostante il momento terribile le autorità decisero di lasciare invariata la lega dell’argento monetato, che rimase di 958,333 millesimi, agendo invece sul peso. Dalla provvisione di zecca del 18 giugno 1530 possiamo leggere che “Atteso è pericoli in che si truova la ciptà di Firenze rispecto alla guerra che li soprasta…et considerato che egli è necessario aiutare la ciptà quanto alla cosa del danaio, el più ch’è possibile et per tutte le vie possibile, exendo exausta di esso dalle continue spese sino al presente dì facte, et non volendo per questo in modo alchuno guastare la lega dello argento Fiorentino ma più presto valersi in qualche parte del peso a utile del comune di Firenze; […] che mandino a taglio de’ grossi o barili o quinti più per libra […] dove al presente la zeccha rende per una libra d’ariento popolino fiorini octo et soldi XII, danari 6, si renda al comune ducati octo, soldi XVII, danari 6 alla debita lega, come si è sempre battuto: la quale lega a nessuno modo si alteri liberamente, lecitamente; et sanza preiudicio alchuno”. La svalutazione complessiva delle monete argentee colpì anche il barile il cui peso passò da g 3,51 g a 3,49 circa.

Un anno dopo la situazione non era evidentemente migliorata tanto che si decise una nuova svalutazione. Nella provvisione di zecca del 4 agosto 1531 la valuta del barile fu portata a soldi 13 denari 4 (160 denari in luogo dei precedenti 150). Lo scopo era quello di bloccare la fuoriuscita della moneta dal territorio fiorentino e, nel contempo, incoraggiare il suo rientro attraverso un aumento del suo potere d’acquisto: “giudicando che l’alzare il pregio in qualche parte, al vostro oro et buone monete d’argento, sarà rimedio non solo che il vostro oro et argento resti qua, ma farà per adventura tornare assai di quello che […] è stato insino a qui portato fuori del vostro dominio”. Ancora una volta la lega rimase invariata a 958,333 millesimi, mentre il peso del barile fu portato a g 3,44 con un contenuto di fino argenteo di g 3,30. Vista l’onestà fiorentina nell’ostinarsi a non alterare la lega di argento presente sulle proprie monete agendo soltanto sul loro peso, anche in momenti di profonda crisi come quello del giugno 1530, non può stupire la fermezza nei confronti di quelle monete (e di chi le emetteva!) che presentavano una lega alterata e che circolavano nel territorio di Firenze. Nella citata provvisione del 4 agosto infatti si rilevava che “havendo conosciuto, per lungha experientia di più anni proximi passati, quanto sia nocivo, alla ciptà et dominio di Firenze, il comportare d’essere in facultà di ciascuna persona spendere qui ogni moneta forestiera; delle quali monete essendone molte, anzi quasi la maggiore parte, di poca bontà et valuta quanto sono, et non dimancho spendendosi al pari delle buone et così cambiandosi et barattandosi con il vostro oro et argento buono, sono potissima causa di cavare di qua l’oro et l’argento et lasciarci le monete cattive […]”. Accadeva che le monete straniere (moneta forestiera) circolavano nel territorio fiorentino con il medesimo potere d’acquisto e con un cambio alla pari rispetto alla stessa tipologia delle monete di Firenze. Per cui, volendo esemplificare, un carlino/giulio straniero era cambiato con un barile fiorentino e il potere d’acquisto delle due monete era praticamente lo stesso.

A sinistra, lo storico Benedetto Varchi (1503-1565) ritratto da Tiziano Vecellio; a destra in alto, carlino (mm 26, 1504-1506) zecca di Firenze. Ex asta Nac 76, 2013, 56; a destra in basso, barile (mm 28, dal 1506) zecca di Firenze. Ex asta Nac 47, 2008, 145

Il contenuto d’argento, tuttavia, differiva. Il carlino ne conteneva una quantità inferiore rispetto al barile quindi, in pratica, a Firenze entrava moneta cattiva (il carlino forestiero) e tendeva ad uscire moneta buona (il barile), questo anche grazie al fatto che la popolazione comune aveva le sue brave difficoltà nel percepire la differenza d’intrinseco tra le monete. Si innescava, inoltre, il meccanismo che prende il nome di Legge di Gresham per cui chi in effetti percepiva la differenza di intrinseco tendeva a spendere la moneta cattiva, il carlino, e a tenersi quella buona, il barile, che quindi rischiava di sparire dagli orizzonti fiorentini e non solo. Ora resta da chiedersi contro quale città si scagliò l’ira delle autorità fiorentine e quali furono i provvedimenti presi. “Inprima, atteso che le monete d’argento et rame del conio Sanese si truovono oggidì fabrichate di materia tanto diversa et tanto vile, che con grandissima diffichultà si potrebbe porvi regola ferma per spenderle, pertanto…tutte le monete del conio Sanese d’ariento et rame s’intendino essere et sieno per lo advenire prohibite spendersi o tenersi nella ciptà o dominio Fiorentino […]”. La zecca di Siena era dunque ritenuta l’unica responsabile tanto che nella provvisione (che è sempre la medesima del 4 agosto 1531) non vengono nominate altre zecche oltre quella senese. Non solo, si decise anche che “sia dato tempo, a chi di tali monete si trovassi, a mandarle fuori del dominio giorni XV proximi dal dì della finale conclusione di questa [provvisione, Ndr]”. Veniva quindi stabilito un termine entro il quale ci si doveva liberare delle cattive monete senesi. Occorre considerare che in questo periodo i rapporti tra Firenze e Siena non erano dei migliori. E’ ancora il Varchi a riportare che durante l’ultima difesa della repubblica fiorentina nel 1529 contro le armate di Carlo V “I Sanesi tosto che l’esercito imperiale accampò Firenze, parendo loro che fosse venuto il tempo di potere scuoprire sicuramente e senza danno, anzi con guadagno, l’antico innato odio loro contra i Fiorentini, cominciarono in privato a rubare e ardere tutto quello che potevano…ed in pubblico non solo a riconoscere i confini vecchi, ma a crescerne de’ nuovi”.

Nuove monete a Firenze | Cinque anni più tardi il barile divenne il perno della moneta argentea di Firenze. Vediamo come. Dopo l’ultima parentesi repubblicana al potere erano tornati stabilmente i Medici. Nella fattispecie fu il duca Alessandro a promuovere la riforma monetaria. Con legge del 5 marzo 1534 si decretò la fine dei grossi d’argento e si fece del barile la moneta principe degli scambi: “Perchè la detta moneta nuova d’argento ha esser quella con la quale communemente si ha a negotiare, et contrarre, però si provede, et prohibisce, che per lo avvenire non si battino più grossi […]”. Il fino fu portato a g 3,21 su di un peso complessivo di g 3,35 e la valuta rimase invariata a soldi 13 denari 4. Si decise inoltre di coniare un multiplo del barile e un suo sottomultiplo: “[…] se ne batta di Barili tre, e di Barili uno, e Barile mezzo […]” e ancora “Però si dichiara, e ordina, che la sopradetta moneta nuova di valuta del Barile si spenda per soldi 13 e danari 4 l’una, e li mezzi e triplicati allo avvenante”. Dato che il barile veniva scambiato a soldi 13 denari 4 (160 denari) il multiplo da 3 veniva ad equivalere a 480 denari, ossia 2 lire. Questa nuova moneta seguiva di oltre mezzo secolo la coniazione della lira a Venezia (1472) e a Milano (1474), monete che prendono il nome di testoni dal ritratto del signore della città al dritto [la lira veneziana perderà la corrispondenza del legame testone-ritratto dopo il dogato di Nicolò Tron (1471-1473), “Moneta Veneta non habea Imaginem D. Ducis”. La Repubblica, in quanto tale, non avrebbe dovuto ritrarre il doge su di una moneta simbolo, questo, di potere autoritario].

A sinistra, Clemente VII (Giulio de’ Medici, 1523-1534) ritratto da Sebastiano del Piombo; a destra, testone (mm 32) di Alessandro de’ Medici zecca di Firenze. Ex asta Nac 76, 2013, 60

Anche il multiplo da 2 lire di Firenze ebbe il suo ritratto nella persona del duca Alessandro de’ Medici. La stampa della moneta fu commissionata al Cellini, cosa della quale è lui stesso ad informarci: “[…] subito andai a trovare il Duca Lessandro, et molto lo ringratiai del presente de’ cinquanta scudi, dicendo a sua eccellentia che io ero paratissimo a tutto quello che io fussi buono a servire sua eccellentia. Il quale subito mi impose che io facessi le stampe delle sue monete: e la prima che io feci si fu una moneta di quaranta soldi, con la testa di sua eccellentia da una banda e dall’altra un san Cosimo e un san Damiano”. Il testone mediceo pesava all’incirca g 10 ed era battuto alla consueta lega del popolino di 958,333 millesimi, così come il mezzo barile. Il peso di quest’ultimo era di circa g 1,50 e fu ancora l’artista fiorentino ad occuparsene: “[…] io feci la stampa per i mezi giuli innella quale io vi feci una testa in faccia di un san Giovannino”. Anche per questa moneta non possiamo parlare di novità. Il mezzo giulio, infatti, era già comparso durante il pontificato di Giulio II (Giuliano della Rovere 1503-1513).

Vale la pena fare soltanto un accenno ad una disposizione della stessa legge del 5 marzo 1534 che, almeno in apparenza, mitigava la precedente disposizione del 1531 che vietava l’utilizzo e il possesso di moneta straniera nel territorio fiorentino: “Si provvede, che tutte le monete forestiere, così d’argento, come quattrini s’intendino, e sieno sbandite […]”. Decadeva il divieto di possedere monete straniere, tuttavia “Benché come di sopra prossime è detto, sieno sbandite le monete forestiere d’ogni sorte nientedimeno perché è conveniente provedere alla indennità de’ Forestieri d’ogni sorte, che passeranno per la Città, o Dominio per transito, possino portare, ma non spendere monete forestiere […]”. Si potevano tenere, dunque, ma non spendere!

Cinque anni più tardi, nel 1539, anche a Firenze faceva la sua comparsa la lira, ovvero il mezzo testone (equivalente a 11/2 barile/giulio), del peso di circa g 4,8 a lega invariata di 958,333 millesimi, con un fino di g 4,6. La moneta prese il nome di cosimo in onore del duca Cosimo de’ Medici, succeduto ad Alessandro due anni prima.

 

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