SECONDINA LORENZINA CESANO
E LE “MONETE DEL TEVERE”

(di Roberto Ganganelli) | Embargo sulla vendita di armi e di munizioni, proibizione di concedere qualsiasi prestito e credito, divieto di importare merci italiane e di esportare verso l’Italia qualunque prodotto e materia prima necessaria all’industria di guerra: queste le principali sanzioni economiche che, l’11 ottobre 1935, cinquantadue membri della Società delle Nazioni riuniti a Ginevra decidono come ritorsione in seguito all’invasione italiana dell’Etiopia che ha preso il via il 3 ottobre. La lista delle merci e dei prodotti sottoposti a vincolo viene approntata nei giorni successivi: per il momento si decide che ne siano esclusi il petrolio, l’alcool industriale e alcuni altri prodotti di largo uso per l’industria civile; si tratta, insomma, di sanzioni “soft” che intendono soprattutto dare un segnale all’Italia. La data di effettiva entrata in vigore delle sanzioni è infatti posticipata di oltre un mese, al 18 novembre.

Così, nel nostro Paese inizia l’era dell’autarchia durante la quale, al grido de “L’Italia fa da sé!” sarebbero stati ideati il “cuoio rigenerato” (detto anche “salpa” e fatto con i cascami residui dell’industria calzaturiera), il “cafioc” (tessuto ricavato dai fiocchi di canapa) e centinaia di “surrogati” di altrettanti prodotti divenuti rari e costosi a causa delle mancate importazioni dall’estero. Ma per affrontare lo sforzo bellico necessario alla conquista della colonia africana – ottenuta, peraltro, con più fatica del previsto e solo in seguito a dure rappresaglie e all’impiego di gas tossici su larga scala – non bastano le economie sui prodotti di largo consumo e sulle materie prime: ben presto, infatti, anche i metalli diventeranno un bene prezioso e il regime inizierà a farne incetta per scopi strategici.

Naturalmente è l’oro, in primo luogo, a venir sottoposto ad un’incetta sistematica che vive il suo momento di massima tensione patriottica appena un mese dopo l’entrata in vigore delle sanzioni contro l’Italia. Il 18 dicembre 1936 viene proclamata “giornata delle fedi” e tutte le spose d’Italia – a dare l’esempio è per prima la regina Elena – sono invitate a donare alla Patria il proprio anello nuziale deponendolo solennemente in un elmetto militare o, in modo meno prosaico, in una damigiana. L’oro, si dice, servirà a sostenere l’economia italiana e ad incrementare le riserve strategiche in vista di altri, probabili conflitti.

Benedetto Croce, senatore, su invito del presidente del Senato offre così la medaglia d’oro senatoriale mentre Cesare Pavese che, al confino a Brancaleone, “ha serbato buona condotta, conducendo vita appartata, dimostrandosi pentito del suo passato” – riporta un’informativa della polizia –  “per quanto viva in ristrette condizioni economiche, non avendo oro od altri oggetti da dare alla Patria, ha fatto pervenire al segretario politico la somma di lire 50 accompagnandola con patriottiche parole”. L’arcivescovo di Bologna, il cardinale Giovan Battista Nasalli Rocca, dona  la sua croce pastorale, il principe ereditario Umberto il collare dell’Annunziata (insegna della massima onorificenza concessa dalla dinastia sabauda),  Gabriele D’Annunzio la decorazione al valor militare e Luigi Pirandello addirittura la medaglia del Premio Nobel.

Oro e ferro alla Patria, dunque, e mentre gli italiani – anche gli emigrati all’estero – offrono gioielli e metalli preziosi, i meno abbienti portano pentole di rame, utensili e rottami e perfino i bambini si privano dei loro giocattoli di latta affinché siano inviati alle fonderie per ricavarne armi e munizioni. Alla fine della campagna contro le “inique sanzioni”, nei centri organizzati in tutta Italia si tirano le somme: l’oro raccolto assomma a ben 37 tonnellate e l’argento a oltre 115, mentre in banconote e valuta estera si raggiungono i 16 milioni di lire.

Ma la furia autarchica non si ferma neppure davanti al patrimonio culturale di proprietà dello Stato. Il 2 marzo 1936, infatti, il Ministro dell’Educazione Nazionale invia a tutti i responsabili degli istituti dipendenti dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti una lettera circolare che recita: “Oggetto: accertamento della disponibilità di oggetti in metalli preziosi. Comunico qui di seguito una lettera dell’on. Ministro delle Finanze ed incarico le SS.LL. di provvedere a quanto n essa si richiede, con quella sollecitudine che il particolare momento impone:

Presso taluni enti, servizi ed uffici statali sono in uso od in consegna oggetti varii e medaglie di metalli preziosi di proprietà dell’Amminstrazione. Ove tali oggetti e medaglie fossero privi di valore artistico o storico potrebbero essere destinati ad incremento delle riserve del Tesoro. Per norma dei provvedimenti da emanare, occorre conoscere preventivamente l’entità dei beni di cui si tratta. All’uopo prego le SS.LL. di accerare se e quali di detti beni esistano presso i servizi e gli uffici centrali e provinciali delle rispettive amministrazioni e, nel caso affermativo, di rimettere a questa Ragioneria Generale un elenco degli oggetti e delle medaglie in parola con l’indicazione del peso”.

Ed è a questo punto che entrano in scena quelle che gli archeologi chiamano comunemente le “monete del Tevere”, in quegli anni poste sotto la custodia della professoressa Secondina Lorenzina Cesano. Nata nel 1879 a Fossato, in provincia di Cuneo, appena laureata all’Università di Roma, nel 1902,  la Cesano è stata infatti nominata, per concorso, nel ruolo di conservatore per i musei, le gallerie e gli scavi di antichità, e destinata al Museo Nazionale Romano dove le viene affidato il compito di inventariare i materiali numismatici che vi erano cominciati ad affluire soprattutto in seguito ai lavori di costruzione degli argini del fiume.

La sua attività, tuttavia, va oltre lo studio dei materiali da scavo: nel 1907 si adopera per l’acquisto d’importanti gruppi di monete dalle collezioni Strozzi e Martinetti Nervegna, poi consegue l’abilitazione alla libera docenza in numismatica presso l’Università degli Studi di Roma e viene nominata ispettore. Nel 1909 inizia la libera docenza universitaria che prosegue fino allo scoppio della I Guerra Mondiale. Nel 1912, al momento della fondazione dell’Istituto Italiano di Numismatica, è eletta nel consiglio direttivo dove si impegna, sotto la presidenza di Salinas, prima, e di De Ruggiero, poi, nel potenziamento nel difficile “decollo” dell’associazione.

Negli stessi anni fa compiere acquisti dalle collezioni Hartwig (1910) e Martinori (1913) destinando le monete al medagliere del Museo Nazionale Romane e integrandole con i materiali d’interesse numismatico del vecchio Museo Kircheriano (1913) e con esemplari da scavo e da ripostigli. Per anni, Secondina Lorenzina Cesano alterna l’attività presso i musei con quella universitaria e con un’intensa produzione bibliografica, soprattutto riguardante tesoretti e rinvenimenti di monete romane. Così Nicola Parise, eminente archeologo, descrive l’attività della Cesano in quegli anni nel “Dizionario biografico degli italiani: “Nel 1920 diveniva segretaria dell’Istituto Italiano di Numismatica, ed era incaricata dal Ministero ‘a studiare la questione di un riordinamento dei maggiori medaglieri italiani’. Alla richiesta ministeriale la Cesano non rispose affermativamente, ma denunciando la generale mancanza di strutture che non permetteva l’esercizio di un’adeguata attività di tutela e chiedendo che ogni medagliere, con gradualità d’interventi, venisse dotato dei mezzi e del personale necessari. Un rigoroso riscontro del materiale avrebbe dovuto precedere l’opera di riordinamento vero e proprio. In un futuro, che nulla tuttavia faceva credere prossimo, si sarebbe potuto avanzare il progetto di ‘raccogliere tutto il materiale in pochi grandi medaglieri’. Più avanti (1925) avrebbe mutato parere, e scritto del ‘principale carattere inerente ad ogni collezione numismatica’, destinata ‘a raccogliere innanzi tutto i monumenti prodotti dal centro ove sorge e quelli rinvenuti sul luogo’. Nel 1922 era a Milano in missione presso la Biblioteca di Brera. Nel 1923 vennero acquistati per il medagliere del Museo nazionale romano i ventimila pezzi della collezione Gnecchi, che la Cesano non tardò a presentare in Atti e memorie dell’Istituto italiano di numismatica. Nel 1924 fu incaricata di riordinare le raccolte numismatiche del museo di Ravenna. Nel 1926 dové ritornare a Milano e andare in missione a Trento, ad Ancona, a Reggio Calabria. Nel 1927 era a Lecce. L’anno dopo era nominata direttore, e nel 1929 confermata libero docente nell’università di Roma”.

Chiamata a far parte della Commissione Internazionale di Numismatica e nominata direttore di prima classe (1934), nel 1935 è incaricata dell’insegnamento di Numismatica all’Università di Roma. Nel 1936 l’Istituto Italiano di Numismatica viene trasformato in Istituto nazionale e la Cesano ne mantiene la carica di segretaria. Contemporaneamente (1934–1936) si reca in missione a Napoli (per riordinare le monete provenienti dagli scavi di Pompei), a Reggio Calabria, a Siracusa e a Padova.

E nel 1936, come esperta di numismatica e conservatrice dell’immenso medagliere del Museo Nazionale Romano si trova a dover rispondere alla perentoria richiesta del ministro che chiede metalli per lo sforzo bellico. Davanti a lei ci sono le “monete del Tevere”, un cospicuo nucleo di circa 50.000 esemplari  rinvenuti durante il dragaggio del fiume in occasione dei lavori di sistemazione e costruzione degli argini, delle banchine e dei muraglioni tra il 1877 ed il 1890 e negli anni seguenti. Ai due nuclei principali, selezionati per la loro qualità e importanza e schedati dalla Cesano con i nomi di “Tevere I” – circa 8.500 monete di età imperiale romana – e “Tevere II” – 1.141 esemplari della stessa epoca –  si aggiungono infatti circa 40.000 altre monete “di scarto” di epoca romana, medievale e moderna.

Queste, difficilmente leggibili o del tutto impossibili da attribuire, rappresentano un peso in metallo di quasi tre quintali e dunque, “obtorto collo”, Secondina Lorenzina Cesano si vede costretta ad attingere proprio a questi materiali per compiere il proprio dovere di funzionario dello Stato e contribuire alla “battaglia contro le inique sanzioni”. Naturalmente, sulle monete da consegnare viene compiuta un’ulteriore ricognizione per identificare e serbare eventuali esemplari interessanti, mentre di ogni medaglia vengono inseriti nelle collezioni del Museo alcuni esemplari ma, è chiaro, per un’archeologa come la Cesano non è affatto semplice decretare, di fatto, la distruzione di un tale quantitativo di monete antiche – seppur di scarto – scegliendo quali salvare e quali inviare al crogiolo.

Da grande studiosa qual è, infatti, questa signora piemontese  dall’aspetto minuto e dal carattere fermo comprende perfettamente che anche le monete illeggibili e quelle considerate “rottami” offrono, in un contesto archeologico, un importante patrimonio di informazioni: pur senza conoscerne l’autorità emittente, la zecca o l’epoca di coniazione, infatti, monete come quelle del Tevere possono fornire all’archeologo notizie sulla percentuale dei diversi nominali in circolazione, sui loro pesi medi e sulla composizione delle leghe monetarie.

Alle monete selezionate per la fusione – per un totale di 274 chilogammi – si aggiungono anche 174 medaglie moderne per un peso di 15,3 chili (97 in bronzo a nome di Umberto I e destinate ai benemerenti della Pubblica Istruzione, 13 di Vittorio Emanuele II dello stesso tipo, 3 celebrative di Ludovico Ariosto, 51 di Francesco Petrarca e 10 per l’Esposizione Universale di Parigi del 1900) il ché porta ad un totale di “kg 290 di buon metallo, bronzo, rame, e lega monetaria”. Segnalate al Ministero e riposte in cinque casse di legno, monete e medaglie destinate “allo sforzo bellico” vengono così depositate, attorno alla metà di giugno del 1936, nei magazzini del Museo Nazionale Romano in attesa che qualcuno si presenti a ritirarle.

Termina tuttavia la guerra d’Etiopia, “l’Impero risorge sui colli fatali di Roma”, passano alcuni anni di effimera pace – almeno per l’Italia, dato che la Germania si è già annessa la regione cecoslovacca dei Sudeti, l’Austria e la Polonia – finché, il 10 giugno 1940 l’Italia non si imbarca, a fianco di Hitler e del Giappone di Hirohito, nella sciagurata avventura della II Guerra Mondiale.

Con la guerra anche l’autarchia ritorna di moda tanto che, con l’inasprirsi del conflitto, verranno requisite perfino le inferriate dei giardini e i giocattoli di latta. Le “monete del Tevere”, invece, rimangono stranamente depositate nei magazzini del Museo Nazionale Romano mentre Secondina Lorenzina Cesano prosegue nella sua opera di tutela del patrimonio numismatico pubblico lungi dal rammentare a chicchessia l’esistenza di quel tesoro che l’economia bellica avrebbe trasformato immediatamente in proiettili di moschetto o in pezzi di ricambio per carri armati.

Una battaglia tenace e silenziosa, nel perfetto stile della Cesano che in più occasioni, durante la sua lunga carriera, si è vista negare i meritati riconoscimenti per l’importante attività scientifica compiuta. Una battaglia dietro la quale, con tutta probabilità, vi è anche una motivazione più personale – il fatto di essere di religione ebraica in un Paese che ha da poco varato le leggi razziali – che porta la studiosa a salvare, se non con azioni eclatanti certo con una silenziosa campagna di tutela, quelle monete alle quali ha dedicato anni di studio.

Passano così anche i bombardamenti su San Lorenzo, trascorrono i giorni di Roma “città aperta”, l’eccidio nazista alle Fosse Ardeatine e la deportazione degli ebrei romani e finalmente, il 4 giugno 1944, le prime jeep alleate entrano nella capitale accolte da una folla incredula e festante. Secondina Lorenzina Cesano, finita la guerra, continua a prestare servizio fino al 1949 quando viene messa in pensione per raggiunti limiti di età e lascia anche l’insegnamento universitario per ritirarsi progressivamente dalla scena pubblica (morirà nel 1973). Le “monete del Tevere” scampate a due guerre, con l’uscita di scena della loro salvatrice, vengono invece completamente dimenticate nei magazzini del Museo Nazionale dove saranno individuate solo alla fine degli anni ’70 quando la professoressa Silvana Balbi De Caro, conservatrice delle collezioni numismatiche del museo, durante la revisione degli inventari non si accorge dell’esistenza di quelle cinque cassette il cui peso coincide esattamente con quello riportato, quasi mezzo secolo prima, nel carteggio tra Soprintendenza e Ministero.

Così, gli “scarti” degli scavi di Roma e dei dragaggi del suo fiume sono tornati, a distanza di decenni, a disposizione degli archeologi e dei numismatici. Certo, si potrebbe obiettare che, a salvare dalla mania autarchica quelle decine di migliaia di monete – preziosi reperti agli occhi dei numismatici e degli archeologi di oggi – più che un’opera di resistenza vera e propria da parte della Cesano siano state le lungaggini burocratiche e qualche smagliatura nell’efficienza dello Stato fascista ma, quale che sia la vera ragione, il ruolo avuto da questa grande figura della cultura italiana del Novecento nella vicenda non può essere considerato né casuale né passivo.

Probabilmente, se al posto delle “monete del Tevere” coniate in vile bronzo vi fossero stati manufatti in metallo prezioso o gioielli le cose sarebbero andate in modo diverso. A riprova di ciò basti pensare che le fedi nuziali “donate alla Patria” nel 1936 e negli anni della II Guerra Mondiale seguiranno passo dopo passo i gerarchi del regime fascista nell’avventura delle Repubblica Sociale Italiana per essere ritrovate – contenute in due grandi damigiane colme fino all’orlo – tra i beni sequestrati a Mussolini e ai gerarchi nei giorni precedenti la liberazione.