LE MONETE RACCONTANO:
ABITI E INSEGNE IMPERIALI
A BISANZIO NEL VI SECOLO

(di Luca Mezzaroba) | Uno degli aspetti più noti e caratteristici della millenaria storia dell’Impero bizantino è costituito dalla corte imperiale, e in modo particolare della figura dell’imperatore, dagli abiti che indossava alla vita che conduceva nel “Gran palazzo” di Costantinopoli. Il sovrano costituiva infatti il fulcro non solo della corte, ma di tutto lo Stato bizantino, in quanto ne incarnava le caratteristiche principali: proprio per questo motivo, la sua immagine fu sempre al centro di ogni rappresentazione, da quelle storiografiche, a quelle artistiche (musive o legate ai lavori di miniatura o con l’avorio) fino ad arrivare a quelle numismatiche, in modo particolare alle monete; in queste raffigurazioni l’imperatore era spesso mostrato nella sua maestà, con i tipici vestiti di apparato e le insegne regali.

001Per comprendere in profondità la natura di queste rappresentazioni è però necessario capire il concetto stesso che i bizantini avevano dell’autorità imperiale: il sovrano infatti era voluto da Dio, egli era considerato una sorta di “divinità terrena” a cui tutti dovevano fedeltà assoluta; la sua vita a palazzo, e quella dei suoi dignitari, era scandita da un rigido ordine gerarchico e di precedenze, che doveva rispecchiare la perfezione della “corte celeste”.

È importante sottolineare che i sovrani bizantini si consideravano a tutti gli effetti i diretti discendenti degli imperatori romani; questo fu un concetto basilare che, presente fin dalle origini, fu preservato con tenacia anche quando (VII secolo) il greco e la cultura orientale prevalsero sulla latinità, e fu difeso fino alla caduto di Costantinopoli (1453). Compito dell’augusto era combattere i popoli usurpatori che si erano appropriati illegalmente delle terre romane: questo concetto ebbe la sua piena fioritura con gli imperatori del VI secolo, e in modo particolare con Giustiniano I (527-565) che ne rappresentò il simbolo: Proprio la descrizione di questi sovrani, dello sviluppo iconografico delle loro insegne e della foggia dei loro splendidi abiti è oggetto di questo breve articolo.

“Posti da Dio al governo del nostro impero che ci è stato affidato dal re dei cieli” (la testimonianza, tratta dal “Digesto”, è riportata in Giorgio Ravegnani, “Imperatori di Bisanzio”, Bologna 2008, p. 13) con queste parole Giustiniano I descrive la figura dell’imperatore, proprio  per questo motivo, le vesti che il sovrano indossava dovevano rispecchiare e descrivere il suo aspetto sacrale nelle diverse cerimonie a cui egli partecipava: nel VI secolo, gli augusti disponevano di tre tipi di abito ufficiale: quello civile, quello consolare e quello militare. Se però, per i primi due, esistono diverse rappresentazioni e numerose descrizioni della loro evoluzione nel corso del tempo, sull’abito militare possediamo invece poche informazioni; la numismatica imperiale di questo periodo è dunque l’unica fonte iconografica a nostra disposizione e per questo assume un valore fondamentale. Essa poi risulta indispensabile per capire i mutamenti che lo stesso abito militare conobbe nel fondamentale passaggio che portò l’impero ad assumere sempre più caratteristiche cristiane, che si ripercuotevano inevitabilmente sulla figura del sovrano.

002Tra V e VI secolo, dunque, l’imperatore appare, se pure con caratteristiche leggermente diverse, in tutte le monete. Nel follis di bronzo e nel solido d’oro egli è sempre di fronte e veste il tipico abito militare, che lo identificava come generale di tutte le armate: in testa ha un elmo con diadema gemmato, indossa una corazza e un tipico mantello (di porpora) detto paludamentum, nella mano destra stringe un globo crucigero e nella sinistra uno scudo stilizzato decorato con il disegno di un cavaliere. Il rovescio, ovviamente diverso nei due tipi di monete, mostra, nel solido, un angelo con globo crucigero e lungo scettro con croce, nel follis la grande lettera M maiuscola, indicante il valore della moneta (pari a 40 nummi) e, a partire da Giustiniano, l’anno di impero del sovrano; in entrambi i tipi di monete, tuttavia, è indicato, nella parte inferiore del campo, il nome della zecca.

Tale iconografia, pressoché uguale nelle monete di Anastasio I (491-518), ma soprattutto di Giustino I (518-527) e Giustiniano I, è però frutto di una lenta evoluzione, che era coincisa con la sempre più forte cristianizzazione dello Stato. Se infatti, con questi sovrani, l’impero si poteva dire completamente cristiano, proprio nella monetazione precedente si possono avvertire ancora dei sintomi di “paganesimo”. Anche se timidi monogrammi di Cristo si incontrano già sotto il regno di Costantino I (306-337) e il globo con la croce appare per la prima volta nelle monete di Teodosio II (408-450), ancora con Zenone (474-475 e 476-491) l’imperatore, pur vestendo corazza ed elmo, stringeva nella destra la lancia e non il globo crucigero, il quale diverrà imprescindibile insegna imperiale solo nella prima metà del VI secolo.

Questo passaggio dalla sfera “pagana” a quella cristiana, a parere di Cécile Morrisson (Cfr. “Byzance et sa monnaie. IV-XV siècle”, Lethielleux 2015, p. 34), è ravvisabile anche nel rovescio del solido d’oro: ancora al tempo di Zenone, infatti, la figura alata che domina il campo è chiaramente una Vittoria, appartenente alla tradizione classica; la sua trasformazione in angelo (caratterizzato esclusivamente da insegne cristiane, mentre la Vittoria poteva stringere, a seconda dei casi, una croce o una corona) avverrà, sempre secondo la Morrisson, in modo quasi “naturale”, ma solo nei primi anni del VI secolo, e in modo particolare con il regno di Giustino I quando, sia nel dritto che nel rovescio, il globo sarà sistematicamente sormontato dalla croce.

003Così come per il solido, anche per il semisse e il tremisse d’oro (pari, rispettivamente, a metà e ad un terzo del valore del solido), si assiste allo stesso processo di cristianizzazione: ancora sotto il regno di Giustino I, ad esempio, il rovescio di queste monete presenta una Vittoria alata che, pur reggendo il globo crucigero nella mano destra, stringe ancora nella sinistra la corona. Nel campo poi vi è un’iscrizione che inneggia alla vittoria dell’Augusto: si tratta di un aspetto rilevante in quanto questo titolo rimarrà presente nelle monete fino al X secolo, quando cioè il greco aveva soppiantato il latino già da molto tempo. L’iconografia di maggior interesse, però, è quella legata alla figura dell’imperatore: in questi due tipi di monete, infatti, egli si presenta non più di fronte, ma di profilo rivolto verso destra, indossa sempre la corazza e il “paludamentum” (stretto alla spalla da una fibbia), tuttavia in capo non ha più l’elmo, ma solo il diadema gemmato.

Le monete, dunque, offrono un quadro interessante, anche se inevitabilmente parziale, dell’abito militare indossato dagli imperatori del VI secolo; in ogni caso esso dove essere considerato attendibile in quanto coincide con quello indossato da Giustiniano I nella sua gigantesca statua equestre di bronzo che egli aveva fatto porre nell’Augustaion a Costantinopoli. Di questa straordinaria testimonianza, fusa dai Turchi nel Cinquecento per ricavarne cannoni, non rimangono che pochi disegni e resoconti celebrativi: da questi sappiamo che l’imperatore indossava il consueto “paludamentum”, la corazza, i calzari militari e un particolare copricapo detto “toupha” (una corona rigida sormontata da piume di pavone portata dagli imperatori nei trionfi); come nelle monete, anche in questo caso Giustiniano non stringeva la lancia ma il globo crucigero mentre la mano destra era rivolta in alto, verso oriente, come monito ai Persiani perché non invadessero l’impero.

004Per quanto riguarda l’abito civile degli imperatori, esso è forse il più noto dei tre, in quanto appare, indossato da Giustiniano, nei celebri mosaici della chiesa di San Vitale a Ravenna. Il sovrano, circondato da un seguito di soldati della guardia, ecclesiastici, dal vescovo di Ravenna Massimiano (l’unico di cui è indicato il nome) e da alti dignitari di corte (forse identificabili con i generali Belisario e Narsete) porta in capo lo “stemma” (tipica corona del VI secolo) arricchito da perle e pendenti e indossa le caratteristiche vesti di apparato, il “divitision” e la “clamide”. La prima era una tunica bianca decorata con banda d’oro lunga fino al ginocchio, la “clamide” era di porpora e costituiva una delle insegne più importanti della dignità imperiale in quanto era consegnata all’imperatore al momento dell’incoronazione; in questo caso essa è decorata dal “tablion”, un quadrato ricamato con disegni di uccelli e cerchi, che aveva una semplice funzione decorativa, ed era trattenuta sulla spalla da una ricca fibbia. L’abito era completato dalla cintura (“cingulum”) rossa, simbolo del servizio pubblico, dai pantaloni del medesimo colore e dai sandali di porpora, anch’essi imprescindibile insegna degli Augusti “sotto i piedi dei quali scorre sangue reale”, come ricorda il contemporaneo poeta Corippo (tratto da Giorgio Ravegnani, “Imperatori di Bisanzio”, op. cit., p. 111).

Il terzo tipo di abito indossato dai sovrani bizantini era quello consolare: l’antichissima dignità di console era infatti ancora presente nel VI secolo, tuttavia essa aveva perso gran parte del suo antico prestigio, mantenendo solo la possibilità, per gli eletti, di dare il proprio nome all’anno corrente e di organizzare i giochi nell’Ippodromo di Costantinopoli. È appena il caso di ricordare poi che esistevano altri due tipi di consolato: quello onorario (che garantiva ai cittadini tale dignità in cambio di ingenti somme di denaro) e quello imperiale, per cui erano gli stessi sovrani ad assumere quel titolo. Fin dal IV secolo, in occasione della loro elezione i consoli erano soliti regalare ad amici e parenti delle tavolette di avorio costituite da due sportelli legati insieme, chiamate “dittici”, che spesso li ritraevano negli abiti di apparato: proprio grazie a queste tavolette, è possibile avare un’idea su quali dovevano essere le vesti indossate dagli augusti quando assumevano il consolato o celebravano i proprio trionfi, cosa che avvenne, ad esempio, nel 534, quando Giustiniano festeggiò la sua vittoria sui Vandali.

005Lo stesso Giustiniano era stato console nel 521, tuttavia il suo splendido “dittico”, conservato a Milano nel Castello Sforzesco, non ritrae la sua figura negli abiti di apparato, bensì animali e vegetali; più interessante risulta invece il “dittico” di Flavio Anastasio (da non confondere con l’omonimo imperatore) del 517 conservato nella Bibliothèque Nationale di Parigi. Il console, seduto su un trono (sella) stringe nella mano sinistra uno scettro di avorio (“scipio eburneus”) e nella destra la “mappa”, un drappo usato per dare inizio ai giochi nell’Ippodromo. La caratteristica più interessante è però costituita dalla “trabea”, una lunga stola di porpora avvolta attorno al corpo in modo molto complesso che, per gli imperatori, doveva essere estremamente ricca e decorata.

Gli abiti, dunque, costituivano, fino agli ultimi giorni dell’Impero, una delle insegne più importanti per i sovrani di Bisanzio, non solo per manifestare al mondo la natura divina e inarrivabile degli augusti, ma anche per garantire a questi ultimi il reale esercizio del potere. Non è un caso, ad esempio, che durante la tumultuosa elezione di Giustino I (518) i soldati in rivolta chiedessero a gran voce la consegna degli abiti imperiali, che non avvenne finché la situazione non si fu stabilizzata o che, durante la drammatica rivolta di Nika contro Giustiniano (532) gli insorti, non riuscendo ad impossessarsi delle insegne regali custodite nel Gran Palazzo, fallirono nella proclamazione di un nuovo imperatore. È da ricordare, infine, l’ultimo gesto di Costantino XI Paleologo che, vedendo la sua città cadere in mano ai Turchi (1453) non esitò a scendere in battaglia, rifiutando però di togliersi i calzari di porpora, ultimo simbolo della sua maestà.