DALLE MEDAGLIE AL GONFALONE,
TESTIMONIANZE DI UNA CONGIURA FALLITA

(di Luca Mezzaroba) | Tra le numerose medaglie settecentesche relative alla celebrazione delle Scuole Grandi di Venezia, ne esiste una la cui iconografia, discostandosi decisamente dal tradizionale tema “religioso”, esalta invece un fatto d’armi avvenuto proprio all’interno della città lagunare. La medaglia, coniata in argento e datata 1791, appartiene alla serie voluta (sin dal 1789) dalla Scuola Grande di Santa Maria della Carità e si riferisce a quelle preziose emissioni, opera di Antonio Schabel, che annualmente i “guardiani grandi”, in occasione della loro uscita dalla carica, consegnavano ai confratelli più importanti. (le peculiarità di queste vere e proprie serie di medaglie si trovano in Leonardo Mezzaroba, “I conii di medaglie del Museo Correr, storia della collezione delle Suole Grandi di Venezia” in “Rivista italiana di numismatica e scienze affini. CVII”, Milano 2006, pp. 238-240)

Questa medaglia in particolare appartiene al genere “commemorativo”, che mirava a glorificare eventi del passato a cui i confratelli della Scuola avevano preso parte. Come detto, tuttavia, il soggetto e l’iconografia si discostano, almeno nel rovescio, dalla norma: se infatti il dritto mantiene la legenda e la consueta raffigurazione dalla figura femminile, identificabile con la Carità, volta a destra con i tre bambini accanto (uno allattato dalla stessa Carità, l’altro abbracciato e il terzo reggente il simbolo della Scuola), che appaiono nelle altre medaglie della serie, il rovescio mostra uno stendardo con il simbolo dalla Scuola Grande che, sorretto da un pennone, si erge su un cumulo di armi abbandonate al centro di un caratteristico Campo veneziano (per la descrizione e la scheda tecnica della medaglia si veda P. Voltolina, “Storia di Venezia attraverso le medaglie. III”, Venezia 1998, pp. 518-519).

L’inconsueta scena è in ogni caso completata e chiarita da una legenda latina che, tradotta, ricorda “La schiera dei congiurati messa in fuga in prossimità di campo San Luca nell’anno 1310. Mentre era Guardian Grande Viviano Costantini”; la medaglia sembra quindi celebrare una vittoria ottenuta dai confratelli della Scuola Grande della Carità nei primi anni del XIV secolo: ma chi erano questi congiurati? Perché i membri della Scuola furono costretti a combattere? E perché proprio nel 1310? Per scoprirlo è necessario tornare a quei tumultuosi anni e immergerci in una Venezia ben lontana dall’essere “Serenissima”.

A sinistra, Antonio Schabel, medaglia della Scuola Grande di Santa Maria della Carità che celebra la vittoria sui congiurati in Campo San Luca, 1791 (Argento, mm 41,2; g 26,2); a destra, Gabriel Bella, “La congiura di Baiamonte Tiepolo”, (XVIII secolo), Fondazione Querini Stampalia, Venezia

Il XIV secolo, per la città lagunare, non si era aperto nel modo più sereno: l’acceso dibattito politico seguito alla famosa “Serrata del Maggior Consiglio” (1297) non si era del tutto placato, ma soprattutto una grave sconfitta contro Ferrara e l’interdetto papale (1309) avevano reso il clima interno alla città decisamente pesante. Fu proprio questa situazione di difficoltà a convincere infine alcuni membri di due importantissime famiglie patrizie, i Tiepolo e i Querini, ad agire per attuare un vero e proprio colpo di stato rovesciando Pietro Gradenigo, il doge allora in carica. La fazione dei rivoltosi si organizzò dunque attorno a due personaggi carismatici, Baiamonte Tiepolo e suo suocero Marco Querini. A lungo gli storici si sono domandati le reali motivazioni che spinsero i due ad ordire il complotto, se cioè fossero guidati da semplici ragioni politiche (entrambi infatti appartenevano a quella parte del patriziato veneziano contraria alla “Serrata del Maggior Consiglio”) o se invece si servirono di quelle come scusa per mascherare la loro ambizione e il risentimento personale contro il Gradenigo; sta di fatto che, già per S. Romanin, Baiamonte Tiepolo “ardeva da lungo tempo dal desiderio della vendetta” (“Storia documentata di Venezia. III”, Torino 1853-1861, p. 29) e questa tesi sembra confermata anche da autori molto più recenti (cfr. R. Cessi, “Storia della Repubblica di Venezia”, Firenze 1981, p. 269) che vedono nell’azione rivoltosa ambizioni del tutto personali.

Dunque i congiurati citati nella medaglia erano personaggi appartenenti alla più alta aristocrazia veneziana; l’uno, il Tiepolo, nipote di un doge, l’altro, il Querini, potente nobile ma che la sconfitta contro Ferrara aveva messo in pessima luce. Essi, in ogni caso, riuscirono a mettere insieme una schiera composta da parenti, avventurieri e (non a caso) pochi popolani e decisero di agire nella notte tra il 14 e il 15 giugno 1310. Il piano prevedeva che i due gruppi di congiurati, uno guidato dal Querini, l’altro dal Tiepolo, si incontrassero presso Rialto e si dirigessero verso Piazza San Marco; a loro si sarebbe dovuto unire un terzo contingente, comandato da Badoero Badoer (membro di un’altra antica e nobile famiglia patrizia) proveniente dal Padovano. Insieme avrebbero dovuto eliminare il doge ed eleggere al suo posto Baiamonte Tiepolo.

La notte prestabilita, dunque, Baiamonte Tiepolo partì insieme ai suoi seguaci dalla sua casa di Sant’Agostino per unirsi al suocero, mentre nubi minacciose si addensavano sulla città; raggiunta la casa dei Querini a Rialto, tuttavia, il forte temporale che stava investendo Venezia si trasformò in una vera e propria bufera. Constatata l’assenza del Badoer, bloccato ai margini della laguna proprio a causa delle avverse condizioni atmosferiche, i congiurati decisero di proseguire comunque nella loro marcia.

Oltrepassato il ponte di Rialto, a quel tempo ancora in legno, i cospiratori decisero di dividersi in due schiere che sarebbero dovute irrompere a San Marco da due direzioni diverse: Marco Querini, proveniente da Calle dei Fabbri, fu il primo a raggiungere la Piazza, tuttavia ben presto dovette rendersi conto che il piano era stato scoperto: il suo gruppo fu infatti attaccato dalle milizie del doge Gradenigo, accorse prontamente a difesa del Palazzo. Il complotto, infatti, era già stato rivelato alle autorità ducali da un traditore, Marco Donato, e questo aveva consentito al doge di prendere i dovuti provvedimenti.

A sinistra, tipico “nizioleto” (cartello toponomastico) indicante il Ponte dei Dai e la Calle dei Fabbri presso Piazza San Marco, Venezia; a destra, Antonio Schabel, medaglia “ibrida” della Scuola Grande di Santa Maria della Carità che celebra la vittoria sui congiurati in Campo San Luca e l’istituzione del “guardian de matin”, ca. 1794 (Argento, mm 41,2; g 28,1)

Lo scontro in Piazza San Marco fu breve: caduti al primo assalto Marco Querini e il figlio, il resto della schiera si diede alla fuga. Dopo aver attraversato il Ponte dei Dai (il cui nome richiamerebbe secondo una tradizione locale probabilmente errata, l’urlo di incitamento degli inseguitori), il residuo gruppo dei cospiratori giunse in Campo San Luca. Eccoci così tornati alla legenda della medaglia della Scuola Grande della Carità e alla sua insolita iconografia: arrivati nel campo, infatti, i congiurati furono presto circondati proprio dai confratelli della Scuola Grande, a cui si erano uniti i membri della Scuola dei Pittori, e lì trovarono la loro fine.

La medaglia, dunque, commemora il contributo che la Scuola della Carità e il suo “guardian grande” diedero alla soppressione della rivolta del 1310; tale evento, ancora nella seconda metà del Settecento, doveva costituire motivo di vanto per i confratelli della Scuola e, in ogni caso, la sua rappresentazione iconografica ebbe molto successo, in quanto pochi anni dopo essa fu riproposta in una nuova medaglia. Quest’ultima è in realtà un esemplare “ibrido” poiché, pur essendo stata creata dallo stesso Antonio Schabel e pur mantenendo lo stesso metallo, ripropone l’iconografia legata alla congiura del 1310, al dritto, e l’istituzione del “guardian de matin” (un’altra carica tipica delle Scuole Grandi veneziane) che originariamente costituiva il rovescio della medaglia commemorativa del 1794. Il distacco dal tradizionale soggetto legato alla rappresentazione della Carità, elemento che fa appunto parlare di una serie di medaglie commemorative, e la riproposizione di temi già utilizzati rendono infine difficile datare la medaglia, che potrebbe essere stata realizzata negli anni immediatamente successivi al 1794 (al riguardo cfr. P. Voltolina, “Storia di Venezia”, op. cit. p. 541 e Leonardo Mezzaroba, “I conii di medaglie”, op. cit. p. 242).

A sinistra, pilo di marmo rappresentante, dall’alto in basso, il leone in maestà di San Marco, lo stemma della Scuola Grande della Carità e lo stemma dell’Arte dei pittori. Venezia, Campo San Luca; a destra, bassorilievo marmoreo ottocentesco rappresentante l’anziana Giustina o Lucia Rossi nell’atto di gettare il mortaio. Venezia, Calle delle Mercerie dell’Orologio

Il doppio ricordo medaglistico della eroica azione dei confratelli della Scuola Grande della Carità, in ogni caso, arrivava con vari secoli di ritardo rispetto ai provvedimenti presi dal governo veneziano già poco tempo dopo gli eventi: nel Campo San Luca, infatti, fu posto un pennone sulla cui base di marmo, oltre alla data del 1310, furono rappresentati i simboli di Venezia (il leone di San Marco in maestà) assieme a quelli della Scuola Grande della Carità e dell’arte dei Pittori; tali simboli dovevano campeggiare anche sulla bandiera che, nei giorni di festa, era issata in quel luogo per celebrare l’evento.

E Baiamonte Tiepolo? Lo avevamo lasciato in marcia con la sua schiera di fedelissimi mentre si dirigeva anch’egli verso Piazza San Marco lungo le Mercerie. Ebbene, poco prima che egli potesse irrompere nella Piazza, il suo alfiere fu improvvisamente colpito e ucciso da un oggetto proveniente dall’alto: tale evento causò il panico tra le file dei congiurati, che si diedero subito alla fuga. Era accaduto infatti che una vecchietta, incuriosita dal rumore, si fosse affacciata alla finestra e avesse fatto cadere, forse involontariamente, un mortaio di pietra che aveva colpito proprio l’alfiere dei congiurati. L’anziana donna, chiamata Lucia o Giustina Rossi, fu in seguito premiata dal governo veneziano, il quale, oltre alla promessa di non aumentarle l’affitto della casa, ordinò che ogni anno, da quella finestra, fosse esposto un gonfalone il giorno di San Vito (appunto il 15 giugno). Questa tradizione fu osservata fino alla caduta della Repubblica (1797), e il Museo Correr conserva ancora l’ultimo esemplare di tale gonfalone: esso presenta, nella parte superiore, il tipico leone alato d’oro in campo rosso con libro e una montagna; nella sua parte inferiore invece, oltre ad un emblema troncato d’argento e azzurro al leone rampante dell’uno all’altro, vi è anche un’immagine che rappresenta l’evento. La memoria della “vecia del mortèr”, infine, doveva essere molto presente anche nell’Ottocento, tanto che nel 1841 fu realizzato un bassorilievo, visibile ancora oggi sulla facciata dell’abitazione della Rossi, che raffigura la vecchietta mentre fa cadere il suo mortaio.

Ultimo esemplare del gonfalone celebrativo che veniva esposto il 15 giugno in memoria della sventata congiura, XVIII secolo, Venezia, Museo Correr

Ormai consapevole che la congiura era fallita, Baiamonte Tiepolo ordinò di oltrepassare il Ponte di Rialto e di tagliarlo, in modo tale che le milizie ducali non potessero inseguirlo. Forse egli sperava ancora di asserragliarsi all’interno della città e di attendere l’aiuto di Badoero Badoer; la sua attesa, tuttavia, si rivelò presto vana in quanto il Badoer, riuscito finalmente a penetrare nella laguna, fu subito intercettato dalle galee ducali, i cui marinai, provvidero a giustiziarlo immediatamente e fecero imprigionare gli altri congiurati,. La resa, a questo punto, era inevitabile: preso contatto con gli inviati del doge, Baiamonte Tiepolo fu condannato all’esilio perpetuo, mentre i suoi compagni furono di fatto graziati.

Se il governo veneziano, dunque, si mostrò clemente con i congiurati risparmiando loro la vita, ebbe invece un atteggiamento molto più severo riguardo i loro beni materiali: il palazzo dei Querini di Rialto fu abbattuto e la stessa sorte fu riservata a quello dei Tiepolo in Campo Sant’Agostino, sulle rovine del quale, nel 1364, fu posta una colonna d’infamia con l’iscrizione “De Baiamonte fo questo tereno e mo per lo so iniquo tradimento s’è posto in chomun per altrui spavento e per mostrar a tutti sempre seno”. Tale colonna, poco tempo dopo, fu abbattuta da un fedelissimo del Tiepolo che, per questo crimine, fu condannato dopo un tremendo supplizio. 

A sinistra, altro “nizioleto” (cartello toponomastico) indicante la piccola calle Baiamonte Tiepolo, presso Campo Sant’Agostino, Venezia; a destra, lastra di marmo con iscrizione che ricorda il luogo in cui era posta la colonna d’infamia di Baiamonte Tiepolo, Campo Sant’Agostino. Venezia

Oggi la colonna, che era stata subito riposizionata, non è più presente; al suo posto, ai margini del Campo, rimangono una logora pietra bianca su cui a malapena si leggono le lettere COL. BAI. THE. MCCCX (“Luogo della colonna di Baiamaonte Tiepolo 1310”) e, poco distante, una piccola calle che porta il nome di Baiamonte Tiepolo.