DOSSIER SPECIALE: PREZZI, STIPENDI, PRESTITI
E TASSE. IL DENARO NEL MONDO ROMANO | 3

(di Fiorenzo Catalli) | Riprendendo il nostro “excusrsus” sugli usi del denaro a Roma, ricordavamo come – a dispetto delle usuali letture delle fonti – Gesù fu venduto in realtà, in termini di monete romane, per 120 denari, o 480 sesterzi, una somma equivalente al prezzo di uno schiavo non in giovane età (Eso 21:32; cfr. Le 27:2-7; Mt 26:14-16, 47-50). Ma in altri ambienti con pochi assi al giorno si poteva tirare a campare! Su una colonna della Grande Palestra di Pompei c’è la lista della spesa quotidiana: “(Cibaria empta)/ Pompe(iis)/ iu[…](assibus) III S (=semis)/ p(ondo?) lard(i) (assibus) III/ vinum a(sse) S/ cas(e)um a(sse) S/ oleum a(sse) I / panem a(ssibus)II S/ suar(ium) a(ssibus)IIII” ossia: “Cibo acquistato in Pompei: iu[…] tre assi e mezzo, una porzione (una libbra?) di lardo tre assi, il vino un asse e mezzo, il formaggio un asse e mezzo, l’olio un asse, il pane due asse e mezzo, la carne di maiale quattro assi”. (CIL IV, 8561; NSA 1939, p. 250 n. 54).

Graffito da Pompei (CIL IV, 8561) ed affresco raffigurante pesci e volatili, tra gli elementi base dell’alimentazione nella Roma antica

Sempre a Pompei, una diversa lista della spesa recita: “Pane(m) a(ssibus) II/ pum(entarium) a(ssibus) III/ oleum a(sse) I/ […]/ vinum a(sse) S/ caseum a(sse) S” (ossia, “Il pane due assi, il piatto di carne (pulmentarium) tre asse, l’olio un asse, il vino un asse e mezzo, il formaggio un asse e mezzo”). (CIL IV 8566; NSA 1939, p. 252 nn. 61 e 62)”. Un modio (kg 6,503) di frumento costava 12 assi (tre sesterzi) mentre uno di lupini solo 3 assi (Breglia, “Circolazione…”, p. 50), ma per il lavaggio di una tunica il proprietario è costretto a sborsare 4 sesterzi (16 assi) (CIL IV, 1392).

Sulla parete di una taberna in via degli Augustali, forse un componete di un’allegra brigata ha graffito il seguente testo: “Calòs Hedonè/ valeat qui legerit/ Hedonè dicit/ assibus (singulis) hic bibitur, dupondium si dederit, meliora bibes/ qua(ttuor?) si dederis, vina falerna bibes” (ossia, “Calòs Hedonè, stia bene chi [questo] leggerà, Hedonè dice, qui si beve con un solo asse, se darai un dupondio [doppio asse], berrai vino migliore, se darai quattro [?] assi berrai vino Falerno”) (CIL IV, 1679; Canali-Cavallo p. 210; Della Corte p. 180 n. 335, Bull Inst. 1865, p. 165). Il testo è una evidente prova del fatto che minime quantità di denaro sono in grado di valutare le differenze di qualità tra i prodotti, dal vino scadente al Falerno, il migliore e più apprezzato nell’area vesuviana.

All’ingresso di bottega lungo via dei Teatri è dipinto un annuncio di età ancora repubblicana, che promette una ricompensa di 65 sesterzi a chi riporterà un recipiente di bronzo trafugato e di 20 sesterzi se indicherà il ladro così da recuperare l’oggetto (CIL IV, 64). Ad Ercolano, l’insegna di una bottega che fiancheggia l’ingresso della Casa del Salone Nero, sul decumano massimo, reca la scritta “Ad Cucumas”, forse il nome stesso della bottega, con la raffigurazione di 4 brocche e relativi prezzi: 4 assi, 3, 4 e mezzo e 2 e mezzo. Si tratta assai probabilmente di una rivendita di vino e il diverso costo, a seconda della qualità è probabilmente riferita ad un sestario (l 0,545) (M. Pagano in Cron. Erc. 18,1988 pp. 209-214).

Insegna di una bottega in Ercolano ed asse di restituzione per Tiberio databile al periodo di Tito (79-81 d.C.)

Un’epigrafe latina, rinvenuta nei pressi di Isernia ed oggi conservata al Museo del Louvre, che dalla lettura delle prime due righe appare funeraria, mostra nel resto dell’iscrizione un divertente dialogo tra un oste e il suo cliente, con mantello e cavalcatura, un mulo, pronto al suo fianco, mentre dissertano sul conto da pagare. “L. Calidius Eroticus/ sibi et Fanniae Voluptati v(ivus) f(ecit) / copo computemus habes vini ) (= sestarium, ca. l. 0545) I(=assem unum) panem/ a I (= assem unum) pulmentar (pulmentarium) a II (= asses duos) convenit puell(am) / a (= asses) VIII et hoc convenit faenum / mulo a (=asses) II iste mulus me ad factum / dabit”, ossia: “Lucio Calidio Erotico fece ancora vivo per sé e per Fannia Voluptas. Oste, facciamo i conti! Tu hai: un sestario di vino un asse, il pane un asse, il piatto di carne due assi… E’ giusto!… La ragazza otto assi… Anche questo è giusto!… il fieno per il mulo due assi. Questo mulo mi manderà in rovina!”.

Epigrafe di L. Calidius Eroticus ed asse di Tiberio (14-37 d.C.)

Qualche studioso ha in realtà messo in dubbio che si tratti di una vera iscrizione funeraria relativa ad un proprietario che in vita avesse svolto il lavoro di oste, ipotizzando piuttosto che si tratti di una insegna di osteria con la scena del commiato tra oste e cliente, volutamente in tono scherzoso ed esagerato, anche nell’uso dei due nomi legati al mondo erotico e burlone delle osterie. Sta di fatto che i prezzi segnalati coincidono con quanto riportato in altri documenti.

All’inizio il “munus” rappresentava una forma di contribuzione volontaria alle spese della cosa pubblica. Chi ne era esentato godeva della “immunitas”. Il numero degli “immunes” era assai ampio, dagli alti funzionari dello Stato, ai sacerdoti, ai proprietari di mercantili, agli armatori. Il tributo gravava solo su una parte della comunità almeno fino al 168 a.C., quando, dopo la fine della terza guerra macedonica (171-168 a.C.) combattuta da Roma contro la Macedonia allora governata da re Perseo, i “cives romani” non pagarono più il tributo che rimase a carico dei soli “peregrini”, gli stranieri.

Le imposte dirette, il “tributum”, colpivano unicamente le provincie. Il “tributum soli” si pagava esclusivamente sui terreni provinciali ma erano escluse le città libere, immuni per diretto e specifico privilegio dell’imperatore. Per una città provinciale godere del diritto italico, lo “ius italicum”, rappresentava l’onore supremo cioè l’immunità fiscale diretta. Anche il “tributum capitis”, l’imposta personale colpiva coloro che non erano “cives romani” e dunque era riscossa, come la precedente, in tutte le provincie. Queste imposte erano riscosse direttamente dall’autorità locale o dagli appaltatori pubblici sotto la responsabilità dei governatori o di funzionari della loro cerchia, i questori o i procuratori.

Accanto alle imposte dirette esistevano per tutti gli abitanti numerose tasse indirette: diritti di dogana, di pedaggio, di concessione, tasse sulla transumanza, sugli affrancamenti degli schiavi, la “vicesima libertatis”, pari al 5% del prezzo dello schiavo e sulla vendita degli schiavi, pari al 4% del rispettivo valore.

Quadrante di Caio Caligola (37-41 d.C.) con indicazione dell’abolizione della tassa (RCC, “remissa ducentesima”)

Allo scopo di rendere più efficace la riscossione di queste imposte, a partire dal regno di Adriano, i controlli divennero più efficaci con la sostituzione di un monopolio diretto all’appalto delle imposte. La crescita della spesa pubblica veniva coperta con l’imposizione di nuove tasse, sulla ventesima parte dell’eredità, “vicesima hereditatum”, pari al 5% che colpiva unicamente i cittadini romani e riguardava i lasciti e le successioni in linea diretta, al di sopra di un certo ammontare.

Anche le vendite all’incanto, le aste, erano gravate da una imposta dell’1%, il cui incasso finiva direttamente al cosiddetto “aerarium militare” creato da Augusto nel 6 d.C. Questa tassa dimezzata nel 17 d.C. fu riportata al valore originale da Tiberio e soppressa da Caligola per la sola Italia. A questo provvedimento fa riferimento l’emissione di un quadrante (un quarto di asse) dello stesso Caligola che ricorda “remissa ducentesima” (RCC). La tassa fu comunque reintrodotta da Nerone ed era ancora esistente nel III secolo, quando Caracalla la portò al 10%.

Alla abolizione della tassa sulla “vehiculatio” si riferisce una emissione monetale a nome di Nerva. Sono ben visibili, al rovescio, due muli da traino accanto ad un carro da trasporto con esplicita legenda “vehiculatione Italiae remissa”. La “vehiculatio” era il servizio di trasporto di uomini o cose per conto dello Stato affidato ai “praefecti vehiculorum”. Le spese di questo servizio, che gravavano sulle comunità,fu assunto dallo Stato proprio sotto il regno di Nerva.

Sesterzio dell’imperatore Nerva (96-98 d.C.) con indicazione dell’abolizione della “vehiculatio”, la tassa per il servizio di Stato e sesterzio dell’imperatore Nerva (96-98 d.C.) con indicazione della riforma del fisco a favore della comunità giudaica

Un diverso provvedimento fiscale fu preso da Nerva per sanare le ingiustizie nei confronti della comunità giudaica presente a Roma. Il ricordo è in una emissione a nome dello stesso Nerva con il rovescio che presenta il tipo della palma e la legenda esplicita “fisci iudaici calumnia sublata”. Un sesterzio di bronzo a nome di Adriano ricorda la decisione dell’imperatore di distruggere i registri relativi a vecchi debiti per un ammontare complessivo di 900 milioni di sesterzi (“reliqua vetera [sestertios] novies millies abolita”). Il rovescio di tale emissione mostra l’imperatore che con una fiaccola sta bruciando un cumulo di registri depositati a terra mentre i cittadini presenti acclamano.

Sesterzio dell’imperatore Adriano (117-138 d.C.) con indicazione dell’abolizione di vecchie tasse

Il rinvenimento di monete all’interno di sepolture ha fatto pensare all’uso della moneta come obolo di Caronte, ovvero come pagamento obbligato da parte del defunto per pagare il traghettare Caronte che con la sua barca trasporta i defunti al di là del fiume infernale, lo Stige. Le fonti storiche sono discordi sia sulla figura di Caronte che sull’uso della moneta per questo scopo.

I poemi omerici ignorano la figura di Caronte e non si fa cenno alcuno ad attraversamento di fiumi o paludi infernali, mentre in un ciclo epico costituito tra l’VIII e il VI secolo a.C. compare la figura di un vecchio nocchiero, a cui non viene dato un nome, che traghetta i morti. Una “nave silenziosa dalle vele nere” che accompagna “verso la riva che non ha sole”, senza citare Caronte, è descritta ne “I Sette a Tebe”, la tragedia di Eschilo (Hept., nel secondo semicoro del terzo stasimo) rappresentata per la prima volta nel 467 a.C. Trenta anni dopo, Alcesti, nella tragedia omonima di Euripide (Alc., 252-257), vede “la barca a due remi nella palude, il nocchiero dei morti Caronte, con una mano sulla pertica che la incita a non indugiare”. In nessuno di questi casi si fa cenno a pedaggi da pagare. Incerto è il riferimento ad una moneta per il pedaggio nel “Lisistrata” di Aristofane (Lys., 599-600) mentre in modo esplicito l’esistenza di un nolo dovuto al traghettatore è nelle Rane dello stesso autore greco (Ran., 139-140, 270).

Caronte e Psiche in un’incisione del XVI secolo

Gli scrittori greci e latini di età augustea (Properzio, Antifone di Macedonia, Lucillo, Ammiano, Luciano, Giovenale e Apuleio) confermano l’esistenza del pagamento a Caronte da parte del defunto, citando anche il caso della città di Ermione. e forse anche di Sicione-Egiale, che trovandosi in una felice posizione geografica rispetto all’ingresso all’Ade consentono ai propri defunti di non pagare alcuna tariffa (Strab. VIII, 6, 12, C 373; Kall., fr.278 Pf.). Anche Enea, che nel racconto di Virgilio (Aen. VI, 298 ss.) è accompagnato da una sacerdotessa, scende nell’Ade, si fa traghettare da Caronte ma non paga alcun pedaggio né gli viene chiesto. La sacerdotessa mostra a Caronte un ramo di vischio e al feroce Cerbero viene offerta una focaccia impastata di miele e erbe soporifere. Gli altri autori citati fanno tutti riferimento ad una moneta da consegnare a Caronte per essere traghettati e Apuleio (Met. 6,18-20) specifica la posizione della stessa, “in modo che la prenda egli stesso con la sua mano dalla tua bocca”. I morti, dunque, non portano la moneta nella mano ma in bocca essendo, per la loro stessa condizione, inabili ad ogni movimento.

Nel mondo greco Caronte è raffigurato con la barba mentre tiene in mano un remo-timone, a volte a bordo della sua imbarcazione sulle rive di una palude, quasi esclusivamente nella produzione ceramica. Nel mondo romano le raffigurazioni di Caronte e dell’Aldilà sono più frequenti a partire dalla media età imperiale soprattutto nei bassorilievi dei sarcofagi, ma in nessun caso abbiamo la certa rappresentazione dell’atto di deporre la moneta in bocca al defunto come nelle parole di Luciano (De luct. X) che si prende gioco dell’abitudine dell’obolo: “Quando uno dei familiari muore, per prima cosa prendono un obolo e glielo mettono in bocca per pagare la traversata al nocchiero, senza prima accertarsi quale moneta abbia corso legale nell’aldilà”.

La documentazione archeologica raccolta in questi ultimi decenni nello scavo delle necropoli documenta una diversa realtà. La consuetudine dell’offerta dell’obolo a Caronte non era radicalmente diffusa e la presenza di monete nelle singole deposizioni oscilla tra il 30 e il 50% delle sepolture indagate. Da questa percentuale occorre comunque escludere i casi, non rari, di monete trovate all’altezza del petto o comunque, nel caso la tomba sia stata sconvolta da scavi clandestini, anche in altra posizione lungo lo scheletro, ma con foro passante che qualifica le stesse come amuleti da appendere al collo. E’ stato osservato come, nel caso di monete di età imperiale, il foro sia stato fatto in modo che si possa portare al collo in asse con il ritratto dell’imperatore o dell’imperatrice.

Sesterzio di Faustina Senior usato come amuleto e moneta “obolo di Caronte”

In altri casi il rinvenimento della moneta ancora all’intero della bocca o nei pressi del cranio offre la certezza che la stessa sia stata depositata con l’intenzione di assolvere la funzione di obolo per Caronte. In una sepoltura della necropoli di via Basiliano a Roma sulla moneta sono ancora saldati due denti, primo e secondo molare, del defunto (lo scheletro era riferibile ad un bambino di circa 6-8 anni) a dimostrazione del sicuro inserimento della moneta in bocca. In altri casi la moneta presenta tracce di tessuto saldato alla moneta stessa dai prodotti della corrosione del metallo. Il tessuto era evidentemente il sudario in cui veniva avvolto il corpo venuto a contatto con la moneta stessa. Ma a volte la prova della presenza della moneta all’interno della bocca o comunque a stretto contatto con il teschio è dimostrato dalla colorazione assunta dall’osso per effetto dei prodotti della corrosione del metallo.

Bassorilievo che mostra l’introduzione in bocca al defunto dell’obolo di Caronte; esempio di sepoltura; moneta con tracce di tessuto

Nei casi di presenza di moneta nelle sepolture non sembra di notare preferenze né per il sesso né per l’età del defunto; normalmente si tratta di una sola moneta, con preferenza per l’asse in bronzo, anche quando la moneta costituisca l’unico elemento di corredo. Dal punto di vista cronologico, la maggior frequenza di moneta nelle sepolture è nel II secolo d.C., durante la fase degli imperatori adottivi, da Traiano a Commodo. La consuetudine non sembra scomparire con l’avvento del cristianesimo se, come dimostrato dalle indagine archeologiche effettuate all’interno di complessi catacombali, le monete sono affogate direttamente nella calce che chiude il loculo. I casi accertati sono collegati a monete di pieno III secolo d.C. fino alla metà del secolo successivo. Va comunque ribadito che gli spazi catacombali non furono totalmente occupati da elementi di fede cristiana ma che , anzi, a partire dagli inizi del III secolo d.C. costituirono una alternativa per pagani e cristiani al modo di seppellire sopraterra, sfruttando le gallerie sotterranee spesso a più piani.

Catacomba di via Anapo a Roma e “thesaurus” posto sulla scalinata esterna del santuario di Ercole Curino a Sulmona

All’interno di aree sacre la moneta è stata protagonista di situazioni ed usi diversi. Nella frequentazione dei santuari i fedeli lasciavano testimonianze materiali della loro devozione nei confronti della divinità sia con oggetti diversi (statuaria e ex voto) ma anche con offerte in denaro. Tra queste vanno distinte quelle che rimanevano a disposizione degli addetti al culto e come tali potevano essere prelevate e riutilizzate per le esigenze del culto stesso e quelle che erano considerate proprietà esclusiva della divinità e dunque inalienabili. Nel primo caso rientrano i “thesauri”, vere e proprie cassette per elemosine che, sistemate all’esterno del tempio, ricevevano le offerte in denaro dei fedeli. Gli addetti al culto erano in grado di aprire periodicamente tali cassette e prelevarne il contenuto. Al secondo gruppo appartengono tutte le offerte versate nelle sorgenti d’acqua, nei fiumi o in una prima fase all’interno del tempio e poi periodicamente raccolte e collocate in apposite fosse votive scavate all’interno dell’area del santuario.

Ma la moneta è spesso protagonista di usi cultuali diversi: il pedaggio da pagare alla divinità collegata ad un corso d’acqua per cui al momento dell’attraversamento del ponte veniva gettato un obolo nelle acque stesse anche per farsi perdonare l’offesa recata alla divinità per aver osato legare con una struttura fissa le due sponde; o in caso di valico dei monti dove era sempre presente un santuario dedicato alla divinità che presiedeva quel valico e che garantiva il buon prosieguo del viaggio, molto spesso identificata con Giano bifronte, il dio degli ingressi.

Un ponte e una moneta romana in argento con Giano bifronte

Con questo, ennesimo uso della moneta in ambito romano si conclude la nostra ricerca, dedicata alla memoria e all’opera di Giuliano Marchetti, fondatore e “magister monetae” dell’Antica Zecca di Lucca e della Fondazione che da essa è nata. Grazie alla sua inesauribile creatività, alle sue idee, alla sua formidabile carica di entusiasmo e umanità sono nate tante iniziative che hanno favorito, e tuttora favoriscono, la ricerca e la divulgazione della numismatica a Lucca, in Toscana e in Italia.